Sono 8 mila le moschee rase al suolo, adibite ad attività commerciali o abbandonate all’oblio in quell’immensa provincia occidentale che la Cina si ostina a chiamare Xinjiang, “Nuova frontiera”. L’obbiettivo è la cancellazione della cultura e dell’identità del popolo uiguro, turcofono e a maggioranza musulmana. Ma Pechino non si limita ad accanirsi contro i luoghi di culto: costringe in campi di “rieducazione” un milione di uiguri, impone un lavoro semischiavistico ad altre 100 mila persone, prova a negare il futuro di questo popolo torturando le donne con la pratica delle sterilizzazioni forzate.
Negli ultimi dodici anni questa pulizia etnica si è molto intensificata, per lo più nel silenzio e con la complicità di molti attori internazionali: non solo i grandi marchi – accusati di acquistare manufatti cinesi a basso costo proprio grazie alla manodopera schiavizzata – ma anche gli apparati statali. Gli Usa, ad esempio, sono accusati da Amnesty International di aver collaborato con la Cina nella detenzione e tortura di prigionieri uiguri nella famigerata base di Guantanamo. Scandaloso, poi, è il voltafaccia della Turchia. Da quando l’economia è in sofferenza, il presidente Erdogan ha completamente silenziato ogni critica verso Pechino: i prestiti miliardari della Cina hanno perlomeno frenato la caduta libera dell’economia turca, e dalla Cina arriva anche il vaccino anti-covid; ciò spiega non solo il silenzio ma anche gli arresti e le estradizioni di membri della folta comunità uigura a Istanbul.
Ma Erdogan non si definiva il campione dell’Islam oltraggiato e il protettore delle minoranze turcofone nel mondo?