In che senso alcune verità antropologiche fondamentali sono comprovate dalla biologia (come scriviamo nella Dichiarazione pubblicata in queste pagine)? In generale una specie vivente è definita biologicamente grazie a caratteri esclusivi per quella specie ed è costituita da individui simili tra loro, capaci di riprodursi dando vita a una progenie fertile. La specie umana rientra in questa definizione. Gli strumenti tecnici che abbiamo a disposizione ci permettono anche di indagarne gli aspetti microscopici. Se partiamo dalle unità di base del vivente, cioè le cellule, quelle umane sono distinguibili nel loro complesso da quelle di qualsiasi altro vivente seppure prossimo da un punto di vista evolutivo. Se ci addentriamo ancora di più nel micro e osserviamo il DNA, cioè il codice genetico presente nel nucleo della cellula, esso è riconoscibile come DNA umano e non è confondibile con quello di nessun’altra specie. Siamo umani sin dalla dimensione biologica. L’organismo umano è molto complesso, composto di miliardi di cellule ed è un grande sistema integrato, fatto di tessuti, organi, apparati. Siamo fatti quindi di ossa, tendini, muscoli, nervi, sangue e così via, siamo composti di tanti elementi della natura prima in cui ci siamo differenziati come specie. Ma crediamo ci sia qualcos’altro che ci qualifica in modo “speciale” come umani: delle qualità essenziali, connaturali, che costituiscono la nostra tensione ad affermare la vita al meglio possibile e si svolgono in una ricca sentimentalità di cui siamo dotati. Ciò che sentiamo e pensiamo sgorga ed è reso possibile dalla nostra base biologica: la attraversa, la sollecita, la informa, la modula e la oltrepassa, tornandovi costantemente. Un pensiero d’amore per una persona è pienamente incorporato: può diventare una lacrima di commozione e un battito cardiaco un po’ più sostenuto; è frutto di un’intensa attività nervosa, eppure travalica la dimensione fisica da cui sorge e vi ritorna plasmandola ancora. Siamo un’interezza che si viene svolgendo: mente-corpo o psiche-soma, che dir si voglia. Ed ecco che la base biologica umana, già distinguibile da quella delle altre specie per la peculiare “combinazione” dei propri componenti basilari, in presenza di un mondo interno così ricco e misterioso, rivela una complessità molto più accentuata rispetto ad altri viventi.
Unitari e immediatamente differenziati
Quando osserviamo una cellula umana di una qualsiasi parte del corpo non soltanto la riconosciamo come tale, ma inseparabilmente sappiamo se appartiene a una donna o a un uomo. L’unitarietà di specie premessa biologicamente è quindi immediatamente differenziazione nei due generi. Non c’è una cellula umana con un DNA neutro. Ciascuna differenziazione in maschile e femminile comprova l’unitarietà di cui è parte. Importante indicatore è il DNA nucleico dotato di 23 coppie di cromosomi, una delle quali è XX se si tratta di una donna o Xy se si tratta di un uomo. Ecco perché il genere non è ascrivibile biologicamente solo a parti dell’organismo (ad esempio agli organi deputati alla riproduzione) ma è in ogni cellula, quindi in ogni tessuto, in ogni organo, in ogni apparato o sistema dell’organismo. E se consideriamo l’interezza psicofisica di ogni essere umano, parlare di due generi anziché di due sessi risponde maggiormente alla complessità di chi siamo. Inoltre ogni individuo della specie ha una propria complessiva unicità. Proprio per la complessità di ciascun mondo interno e di ciascuna molteplice soggettività umana, ogni persona è un essere unico e irripetibile. Fin dalla base biologica: l’unicità di ciascuno conferma l’unitarietà di specie di partenza, è inconfondibilmente umana ed è maschile o femminile. La grande diversificazione tra gli esseri umani, compresa la più superficiale dei tratti somatici, è una conferma della ricchezza di quella comune umanità differente di cui siamo tutte e tutti parte.
Improntati al femminile
Nasciamo tutti e tutte da donne ed è un fatto abbastanza conclamato, potremmo dire. Oltre a generare la vita, le donne primariamente la crescono e la curano. La primarietà femminile in relazione alla vita concreta della specie ha delle premesse biologiche che ci interessa indagare. Nonostante siano suffragate da innumerevoli studi scientifici, vengono sottaciute o ridotte nel loro portato generale, come ulteriore testimonianza del peso vigente dell’oppressione patriarcale. Inoltriamoci di qualche passo nella matrice femminile dell’organismo umano, nei tratti salienti di matrilinearità, in alcune tracce importanti dell’impronta complessiva del genere femminile per l’insieme della specie.
Perché la matrice biologica dell’organismo umano è femminile? Da un punto di vista biologico, per ogni potenziale individuo di specie, partiamo dalla cellula uovo materna fecondata dallo spermatozoo (cellula madre o zigote). Sia le cellule uovo sia gli spermatozoi hanno, a differenza delle altre cellule dell’organismo, metà del corredo genetico per comporne insieme uno completo. La cellula uovo ha dimensioni molto maggiori rispetto al gamete maschile che, al momento della fecondazione, rilascerà al suo interno il proprio emi-DNA – dopo il cui rilascio deperisce – perché si combini con l’emi-DNA materno verso un potenziale nuovo individuo della specie. L’emi-DNA maschile è impacchettato in 23 cromosomi, uno dei quali può essere X o y. Nel primo caso si comporrà una cellula fecondata femminile, nel secondo una maschile. Vale la pena qui di ricordare e ribadire, a proposito di unitarietà anche da un punto di vista strettamente genetico, che la grande maggioranza delle coppie cromosomiche (22 su 23) sono comuni ai due generi così come il cromosoma X, composto da un migliaio di geni, fondamentale per la vita. Nel cromosoma y ci sono una settantina di geni deputati per lo più alla differenziazione sessuale maschile.
La cellula madre contiene tutto ciò che occorre per cominciare la conformazione di un nuovo organismo potenziale. È la struttura di base da cui originerà prima l’embrione, poi il feto. Per questo possiamo dire che la matrice dell’organismo umano è femminile: solo dopo l’ottava settimana di gestazione interverrà eventualmente un inizio di differenziazione in maschile se una delle coppie di cromosomi è Xy. E quindi possiamo aggiungere che preesistiamo al femminile per tutta una fase di gestazione e tracce corpose della struttura femminile dell’organismo dalla nascita in poi – anche se si tratta di un bimbo o di un uomo – sono presenti in ogni cellula.
Che cosa ereditiamo dalle nostre madri biologiche tanto da farci parlare di matrilinearità? Sono della madre biologica innumerevoli sostanze che nutriranno e sosterranno lo sviluppo embrionale e fetale, tanti i fattori epigenetici essenziali che regoleranno la composizione di un organismo in conformazione. Anche le centraline energetiche del nostro corpo, i mitocondri, vengono dalle madri biologiche: con il loro DNA (detto appunto mitocondriale) giocano un ruolo insostituibile nel metabolismo cellulare e nell’epigenetica. Ma ciò che ci offre una straordinaria vertigine sentimentale è che si attivano sempre e solo i geni della madre preposti allo sviluppo della corteccia cerebrale di cui siamo dotati, cioè la parte più complessa del cervello, quella sofisticata meraviglia biologica a cui dobbiamo tanto della nostra umanità. E ancora di origine materna sono quelle cellule la cui derivazione è da far risalire a generazioni precedenti, quasi come una sorta di misteriosa e affascinante memoria biologica di specie. Matrice ed elementi di matrilinearità quindi si intrecciano e convivono nel comporre la base biologica umana, di tutte e tutti noi.
Ma c’è qualcosa di più profondo che interviene nel prepararci alla vita e nell’improntarla: la complessità dell’interazione materna con il nascituro (o la nascitura), con un cambiamento qualitativo per entrambi negli ultimi mesi di gestazione. Nel feto, infatti, sono abbozzati gli organi di senso e il sistema nervoso ha cominciato a conformarsi più pronto alla vita. Questo permette al feto di cominciare a udire suoni e voci, ad assaporare, a sentire odori. Il senso della vista comincia appena a farsi strada ma sarebbe comprovato che il feto nel ventre materno riesca a distinguere già un buio più intenso da uno meno intenso. Il senso del tatto è oltremodo sollecitato e si accompagna al movimento in particolare delle braccia e delle gambe e al “sentire” con il corpo quello materno. La madre vive con maggiore pienezza la presenza del feto e lo sollecita più o meno volutamente. In lei continua un processo di cambiamento durante tutta la gestazione. Sono rintracciabili infatti nel suo organismo, e in particolare nel cervello, cambiamenti espliciti da un punto di vista biologico. Sono stati rintracciati mutamenti corposi anche nei caregiver (soprattutto nelle donne perché sono a ciò più predisposte) ovvero in tutti coloro che si prendono cura dei bimbi dalla nascita e nella crescita. Ma, tornando all’ultima fase di gestazione, è importante sottolineare come la madre biologica, oltre a trasmettere al feto sostanze che gli sono vitali, sollecita ora il nesso sensazione-emozione, quello che dalla nascita in poi riconosciamo come prius sentimentale. Questa “danza” del feto nel ventre materno, che diversi autori chiamano di consonanza emotiva con la madre, favorisce la conformazione dell’organismo ed origina da questo nesso. Non c’è solo un “ricevere” da parte del feto le sollecitazioni complessive della madre, del suo vissuto relazionale e collettivo, della sua sentimentalità, della sua esistenza ed esperienza, ma anche un “rispondere” a tali sollecitazioni e un “attivarsi” a propria volta elementarmente. In questa processualità rintracciamo l’impronta femminile del potenziale svolgersi poi, con la nascita e la crescita, della connaturalità di quella bimba o di quel bimbo. È con la nascita che sbocciano quelle potenzialità peculiari della nostra specie; e la crescita, inseparabilmente corporea-mentale, di quel bimbo o di quella bimba è possibile grazie agli altri e alle altre, a partire dai “tu” – primariamente ma non esclusivamente femminili – che ci tirano su, a propria volta componenti di diversi “noi”.
Interezza psico-somatica nei due generi
Se la nostra specie è unitaria da un punto di vista biologico ma immediatamente differenziata nei due generi, ciò ha conseguenze dal punto di vista dello svolgimento sentimentale delle donne e degli uomini? Giusto per accennare a questo grande tema, ecco alcuni esempi. Quello del cromosoma X è calzante in proposito. È presente nei due generi e contiene geni vitali. Ma già soltanto la doppia X ha un significato e delle conseguenze nella differenza tra i due generi. Mentre prima si pensava che nelle donne una delle due X fosse silenziata, oggi si sta scoprendo che diviene anch’essa attiva in qualche sua parte ogni volta che “la vita lo richieda” potenziando funzioni fondamentali dell’organismo (ad esempio immunitarie, nervose, ormonali) e contribuendo a una sua diversa conformazione. Quindi anche solo in relazione alla doppia X sono rilevabili differenze importanti tra un organismo femminile ed uno maschile.
Passando a un altro livello, quello cerebrale, sappiamo di innumerevoli fattori che contribuirebbero, nel cervello femminile, a maggiori connessioni tra i due emisferi e ad una maggiore densità delle sinapsi, che potremmo presupporre essere premessa biologica ad una più piena visione della vita. È più accentuata nelle donne la plasticità dell’insieme dell’organismo, oltre che del sistema nervoso; una maggiore intensità sinaptica e una più cospicua irrorazione sanguigna caratterizzano anche la rete sensoriale. È ipotizzabile perciò che ci siano nessi profondi tra queste “intensificazioni” nella base biologica femminile e le accentuazioni essenziali proprie del genere femminile. Sin dall’infanzia si notano, infatti, senza perciò assolutizzarle, delle differenze tra le bimbe e i bimbi. La maggiore evidenza di processi empatico-simpatetici nelle bimbe è solo un esempio – dal tenere più a lungo lo sguardo altrui, all’attivazione dei processi neuronali-metabolici in una sollecitazione affettiva, alla precocità, generalmente, in alcuni processi cognitivi complessi: una luce significativa sulla stretta connessione e interdipendenza tra corpo e mente.
Fatti per la fiducia e per l’amore
Ci siamo addentrati nell’unitarietà di una specie improntata al femminile nei due generi, eppure ricca di una diversità tale da farci dire che ogni essere umano che vive, vivrà ed è vissuto è unico ed irripetibile. Vale la pena fare un’ulteriore immersione per riconoscere che siamo una specie fatta per vivere al meglio possibile, per amare e per essere felice, sin dalle sue premesse biologiche. Seguiamo il percorso dell’ossitocina, altrimenti detto “ormone della fiducia”: la prendiamo simbolicamente in considerazione come traccia biologica della connaturata tensione affermativa a vivere, nel suo svolgersi in relazione e in comune che ci caratterizza umanamente, sentinella del prius sentimentale, segno importante del vissuto dell’affettività. L’ossitocina ha molteplici funzioni: è un ormone, è un neurotrasmettitore, è un fattore epigenetico fondamentale. La madre biologica ne secerne in quantità maggiori durante la gestazione e la trasmette al feto che ancora non ne produce a sufficienza. In media nelle donne – non in gravidanza – se ne trova già un 30% in più degli uomini. Comincia ad agire in maniera copiosa in fase fetale nelle sue tre funzioni fondamentali, costituendo un fattore decisivo nell’organismo in via di costituzione; regolatore metabolico imprescindibile, agisce anche come neurotrasmettitore nella conformazione e nel posizionamento delle terminazioni nervose, principalmente nella configurazione degli organi di senso e propriocettivi (muscolari). Agisce direttamente nell’instaurazione delle sinapsi in tutto il sistema nervoso e in particolare nel cervello. Va a sollecitare il DNA come fattore epigenetico nella produzione di componenti nervose e nella crescita di tutti gli organi, oltre che come attivatore della produzione di difese immunitarie. Ma quando in particolare si scatena? Proprio in presenza di quei processi di consonanza emotiva, in quei nessi sensazione/emozione già presenti poco prima della nascita. Dalla nascita in poi sarà quello il suo segnale preferito: la sensazione di una carezza, di uno sguardo amorevole, di una voce che accompagna le tante scoperte… e le emozioni che ne scaturiscono. Cioè quel prius sentimentale che accende le essenze umane e le sospinge a svolgersi in modo unico per ciascuna/o attraverso l’esperienza e nell’esistenza, emergendo nel e dal corpo, mentre lo sollecitano a conformarsi al meglio possibile per vivere. L’ossitocina accompagnerà tutta la vita di noi donne e uomini ergendosi tra i protagonisti biologici dei processi empatico-simpatetici, tra i principali artefici nel sollecitare la produzione di nuovi geni (il DNA con cui nasciamo può essere enormemente amplificato durante il corso dell’esistenza), chiamata ad agire dall’affettività e dall’amore vissuto in tutte le sue forme possibili. Si rivela perciò uno dei segni tangibili del come siamo predisposti a vivere umanamente, improntati al femminile, in relazione e in comune. Con “fiducia”, possiamo imparare a sceglierlo e sperimentarlo meglio.
L’ispirazione generale per questo articolo è tratta da Dario Renzi, Corso di teoria generale, Libro I, Fondamenti di un umanesimo socialista, e Libro II, Esseri relazionali e sentimentali. Dalla conoscenza alle scelte; Prospettiva Edizioni 2010 e 2017. Altre suggestioni bibliografiche sono riportate a pag. VIII. (NdA).
Per saperne di più
Massimo Ammaniti e Vittorio Gallese, La nasci- ta della intersoggettività, Raffaello Cortina 2014
Francesco Bottaccioli, Epigenetica e psiconeuro- endocrinoimmunologia, Edra 2016
Louann Brizendine, Il cervello delle donne, Riz- zoli editore 2007
Martina Caselli, Il genere primo, Prospettiva Edizioni 2020
Alberto Oliverio, La vita nascosta del cervello, Giunti Editore 2009
Antonella Pelillo, La mente affermativa, Prospettiva Edizioni 2015
Dick Swaab, Il cervello creativo: come l’uomo e il mondo si plasmano a vicenda, Castelvecchi 2017