Antropologia della decadenza Le prime radici e l’ultimo impero (quinta parte)

In tempi di guerra cambia la percezione della realtà. D’improvviso tutto ci sembra effimero, sfuggente, in forse. La quotidianità e il futuro ci appaiono fragili, il ricordo del passato si stinge, gli amori e le amicizie sono ancora più preziosi eppure in pericolo, quei semplici gesti routinari diventano quasi incongrui, il prossimo si allontana ancor di più, la vita stessa non è mai stata tanto importante eppure insondabile. È lo sguardo interno che si appanna, non riusciamo a metterlo a fuoco. È l’infausta coscienza di un potere di morte che ci sovrasta, mostruoso, freddo, irrefrenabile e inconcepibile. Allora possiamo cercare di sfuggire, di non pensarci, di convincerci che tutto sommato la tragedia in atto non ci riguarda, di metterci al riparo dalla pletora di notizie, di spegnere il televisore, forse persino di moderare l’uso di internet, di chiuderci nel privato, di provare a distrarci. Allora la coscienza si offusca ancor di più, ci pieghiamo a quello che sarà, proviamo a consolarci con il tran tran giornaliero ma è improbabile o deprimente riuscirci. 

Oppure reagiamo: cerchiamo di capire meglio e di più come l’oggi e il domani possono appartenerci se li concepiamo e li costruiamo a misura umana; se sentiamo forte e chiaro che le persone care hanno bisogno di noi e noi di loro ancor più profondamente, che il prossimo ha bisogno di noi come noi del prossimo; se ripensiamo e li interpretiamo quei piccoli gesti di ogni giorno comprendiamo che la vita è effettivamente più importante che mai perciò possiamo e dobbiamo saperla immaginare, creare ed interpretare. La coscienza risorge ed insorge: sentiamo il potere ed il bene del vivere ed intuiamo che può fronteggiare i poteri mortiferi; una memoria forte ci rammenta come le nostre nonne e le nostre madri ci hanno guidato fuori dalla peggiore guerra della storia; l’intelligenza ci permette di selezionare e soppesare le notizie anche usando le macchine ma non facendoci manipolare da loro; la ragione ci nutre di speranza e architetta nuovi scenari; la creatività ci permette di immaginare un nostro piccolo e prezioso mondo pacificato, accogliente, solidale, multietnico, libero: da scegliere e costruire; il sentimento diviene alto e concreto ad un tempo architettando la nostra felicità e quella altrui da sperimentare e saggiare assieme. Dunque capiamo che la vita degna di essere vissuta è una scelta e richiede impegno, sempre e comunque. È essa stessa impegno positivo ed affermativo per fondare e costruire benessere comune e al tempo stesso per fronteggiare i poteri oppressivi, sottrargli spazio, negargli il diritto violento e prepotente che esercitano.

Deformazioni e contraddizioni intime

In ogni attività umana possiamo rintracciare le nostre prime ed ineliminabili radici. Sono riconoscibili nel ruolo costitutivo del genere femminile che è primo e superiore a quello maschile non per sopraffarlo ma al contrario per nutrirlo ed educarlo alla costituzione della specie nel suo assieme; nelle soggettività complesse in farsi costante e caotico – tanto da apparire insondabile –, determinanti del nostro essere variamente singolari, reciproci e plurali; nella processualità incontenibile dell’insorgere coscienziale, ancorché sempre più sofferto, ostacolato e ritardato se non bloccato per l’inasprirsi delle decadenze oppressive; nelle necessità implacabili di nuove culture unificanti in alternativa al disfarsi di quelle dominanti; nel risorgere quotidiano di un’inquietudine morale ed etica accentuata dal crollo dei valori tradizionali.1 

Ad un’osservazione attenta ci si accorge non solo della presenza costituente di questi tratti essenziali nel nostro cammino esistenziale ma della loro combinazione strana, imprevedibile e non di rado incomprensibile. Nessuna radice originaria cresce in condizioni “chimicamente pure”. I suoi sviluppi sono sottoposti a mutamenti endogeni, a costanti attacchi e pressioni da parte dei meccanismi dominanti, parallelamente e di conseguenza all’interpretazione che gli esseri umani ne fanno. In altri termini la nostra lettura delle radici e dei loro sviluppi è pesantemente condizionata e condizionante ad un tempo, il che suscita intime contraddizioni da considerare. 

Nel caso della funzione del genere femminile è evidente l’attacco sistematico e costante sviluppato dai poteri oppressivi che godono dell’appoggio, non privo di contraddizioni, da parte delle istituzioni religiose. Nel corso dei secoli ciò ha provocato un relativo ma indubbio adattamento della maggioranza delle donne su scala mondiale, evidenziato dall’accettazione dell’organizzazione familiare di tipo patriarcale, il che concorre a fomentare e giustificare atteggiamenti maschili negativi, aggressivi e persino letali, e contrasti interni alla popolazione femminile. Nonostante ciò rimangono evidenti i segnali della primarietà tanto nelle capacità educative e nell’atteggiamento verso l’infanzia quanto in una tenace refrattarietà alla logica bellica propriamente detta. Entrambi questi fattori significano la persistenza di una superiorità delle donne in favore della specie tutta malgrado l’offensiva subdola e violenta che subiscono in permanenza.

Il tentativo sovversivo dell’oppressione non è in grado di liquidare le figure delle soggettività umane ed il loro intreccio costante ma è stato capace di ingabbiarle e condizionarle gravemente. La costrizione delle soggettività collettive – tramite le organizzazioni militari e poliziesche e quindi nel perimetro concreto e nell’immaginario statale – ha cristallizzato l’idea e la pratica della collettività, rendendola schiava di se stessa e capace o complice di orrendi crimini guerreschi,2 tanto da divenire nel corso dei secoli sempre più spesso ferocemente insofferente al confronto e all’accoglienza dell’altro. Eppure la spinta alla comunanza riappare in forme spurie, spesso leggere o inavvertite, in proporzioni ridotte ovvero a misura delle donne e degli uomini ma non meditata e fondata diversamente. Il gigantismo sociale a dominio statale, estraniante per le donne e gli uomini, entrerà sempre più in contraddizione con l’autentica necessità di naturali raggruppamenti umani diretti, conoscibili, liberi. Il mito di una società mondiale, variante deformata dell’idea di unitarietà di specie, in cui anche noi siamo caduti seppur con tutt’altri intenti3, è mistificazione e copertura della perversità della globalizzazione oppressiva su cui avremo modo di ritornare. La soggettività relazionale è stata blindata nella logica di coppia a sua volta consacrata dal matrimonio, basilare e millenaria istituzione patriarcale che tuttavia ormai mostra crepe evidenti. La soggettività individuale, intesa e pervertita come esaltazione dell’individualismo, negli ultimi secoli è stata oggetto di culto sfrenato nell’ambito occidentale con l’obiettivo sempre più evidente di spersonalizzare ed isolare gli individui, lasciandoli così in balia degli obblighi dettati dai potentati dominanti. Il tentativo di corrodere l’idea e la pratica delle soggettività umane ha compiuto un salto di qualità con il diffondersi contagioso di internet dove si proclamano e si fingono comunità virtuali, rapporti mistificati, identità effimere. Il processo di corruzione dall’alto delle soggettività ha raggiunto livelli molto elevati e certamente suscita una perturbazione dell’equilibrio omeostatico già di per sé delicato. Ciò genera contrarietà interne dentro e tra le figure della soggettività che ne mettono in crisi la stabilità senza che appaiano alternative credibili. È tale la prepotenza statale e la decadenza dei suoi istituti da porre in discussione, senza riuscire ad infrangere, la naturalità delle nostre soggettività complesse che si combinano. Non si tratta tanto di tornare alla natura originaria ma piuttosto di riconquistarla facendo leva su una ricerca coscienziale e culturale adeguata che possa alimentare una prassi conseguente. 

Una riconquista che non può prescindere dal tentativo di riattivare le altre radici primarie. Sono chiamate in causa le coscienze ed inseparabilmente il loro retroterra, quindi le basi, le sollecitazioni e le prospettive culturali che hanno a disposizione. Al tempo stesso e di conseguenza vanno riconquistate le possibilità di pensiero e di pratiche morali benefiche nel rispetto degli altri e in una dimensione etica emancipatrice assunta attivamente, superando la cappa delle ideologie e delle pratiche borghesi.

Un orizzonte di liberazione autentico richiede la capacità di recupero e rinnovamento delle radici umane primarie. Per provare ad assumere e condurre in prima persona ed assieme tale ricerca un buon approccio può essere quello di sondare in una prospettiva genealogica alcuni campi dell’azione umana in modo tale da verificare la presenza, il senso e l’attualità delle nostre proprie radici.

Alle origini dell’economia

Abbiamo cominciato a esplorare in generale i presupposti antropologici di qualsiasi attività umana, ora possiamo avventurarci a verificare quanto siano riconoscibili in concreto nelle loro essenze come nelle storture subìte.

Partendo dalla nostra visione teoretica facciamo ricorso liberamente alle documentazioni delle storie e delle cronache dell’era oppressiva4. In particolare per quanto riguarda la nostra visione del tema ci basiamo sul fondamentale testo di Michele Santamaria L’economia come scambio umano5 dove in maniera semplice e concisa l’autore, che è un nostro ispiratore storico, ci guida sin da subito a comprendere che “l’economia dell’accumulo fronteggia l’umanità come un corpo estraneo”6 e perciò “è necessario e utile trovare una spiegazione umana a ciò che si presenta come terribilmente disumano”7.

Teniamo presenti le categorie fondamentali degli esseri concreti che per natura rappresentano coscienzialmente e quindi culturalmente ogni aspetto della vita ed inseparabilmente agiscono in diversi modi tra loro e sulla realtà che li circonda. Tanto il rappresentare come l’agire – nelle loro molteplici forme – hanno quindi necessariamente ed inseparabilmente movenze introiettive, espressive e trasformative e devono essere intesi come potenzialità intimamente contraddittorie: a seconda dell’indirizzo, delle modalità e delle finalità possono essere affermative o negative, ma anche le due cose assieme. In particolare quando parliamo dell’agire dovremmo distinguere tra l’operare, inteso come attività concepita e finalizzata da chi la compie, e il più semplice fare, che implica un atto più immediato e che ripetuto diviene automatico ma vede sempre un grado di consapevolezza del protagonista. Naturalmente non è previsto un grado ulteriormente infimo dell’agire per cui chi interviene per trasformare una determinata realtà è costretto dalla ripetitività e meccanicità del suo atto e dalla separazione o dalla contrapposizione con il risultato della sua azione all’estraniazione fino alla negazione del proprio carattere squisitamente umano. Invece è questo, in estrema sintesi, il carattere di una delle attività imposte fattualmente e culturalmente come prevalente e fondante dell’era oppressiva e praticata da tanta parte dei maschi adulti: il fare la guerra, appunto.Sarebbe sbagliato sottovalutare il carattere profondamente economico-distruttivo che le azioni militari costituiscono, evidentemente non solo per la produzione e la vendita di armi ma per lo stesso agire bellico dove l’uccisione degli avversari e la distruzione comportano in generale il vantaggio della conquista (o della difesa) di un territorio ed in particolare il pagamento di un salario per gli omicidi compiuti. Uno dei Signori della guerra per antonomasia, Napoleone Bonaparte, considerava esplicitamente lo stupro parte integrante del compenso dei combattenti: ma questa è stata la regola di quasi tutti gli eserciti durante gli ultimi 3.000 anni. Si parla spesso, come eccezione, di economia di guerra intendendo la conversione delle risorse produttive per la costruzione di armi a detrimento delle spese per la produzione normale e corrente, ma non si parla della distruzione bellica come fattore economico a propria volta, secondo la logica statale e capitalista. Le caserme, gli eserciti, le azioni militari non sono solo metafore dell’organizzazione del lavoro salariato: ne sono parte costituente ed integrante fondamentale, il che ci dice già a cosa sia stata ridotta dai potenti una delle principali e più nobili attività umane. Il lavoro per produrre nella loro logica plumbea è anche lavoro per distruggere donne, uomini, bimbi e cose: un lavoro che implica investimenti elevatissimi e manodopera specializzata… ad uccidere.

Dario Renzi (5. continua)

NOTE

1. Nella prima puntata di questo testo, che è divenuto una sorta di feuilleton saggistico le cui parti sono scritte come frutto di un’elaborazione in tempo reale, ho abbozzato un’idea delle prime radici umane così definite ed enumerate: femminili, soggettive, culturali, morali ed etiche (questi due termini da considerarsi un tutt’uno). In effetti nella foga della scrittura ho dissolto il fattore coscienziale, a sua volta fondamentale, nell’aspetto culturale. Quindi, come evidenziato dall’esordio del secondo saggio, le radici da considerare sono cinque e non quattro come scritto nel primo saggio. Mi scuso per l’errore con le lettrici e i lettori: l’approssimazione della ricerca live può comportare questi scivoloni.

2. Da un angolo visuale assai diverso dal nostro, e tuttavia non privo di interesse, Carl Gustav Jung ha trattato questo tema mettendo in luce come la moltitudine accecata può fare cose che un singolo non farebbe mai. Si vedano in particolare uno scritto immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale intitolato Dopo la catastrofe, in C.G. Jung, Civiltà in transizione dopo la catastrofe, Opere, volume decimo, tomo secondo (pp. 11-37).

3. Per un certo periodo abbiamo definito scorrettamente la propensione all’universalità, in qualche modo presente per ogni essere umano, come tensione alla società mondiale.

4. Vedi di Lorella Baldeschi “Un’altra idea della guerra”, La Comune, n. 388; “In cerca di nuovi equilibri”, La Comune, n. 396. A parte i classici della visione critica tradizionale dell’economia, da Smith a Marx, mi sembra utile segnalare l’opera di un marxista non dogmatico che ha cercato di assumere molteplici conoscenze storiche per elaborare una teoria della produzione sociale. Si tratta di Toni Andréani, De la société à l’histoire, tome I, Les concepts communs à toute société, Méridiens Klincksieck, Paris 1989.4. Vedi di Lorella Baldeschi “Un’altra idea della guerra”, La Comune, n. 388; “In cerca di nuovi equilibri”, La Comune, n. 396. 

5. Michele Santamaria, L’economia come scambio umano, Prospettiva Edizioni, Roma 2007.

6. Op. cit., p. 14.

7. Op. cit., p. 15.

quarta parte