“La vita è un lavoro, un mestiere che bisogna sforzarsi di imparare: quando un uomo ha appreso la
vita a forza di averne provato i dolori, la sua fibra, divenuta più resistente e flessibile, gli permette di
controllare la sua sensibilità; allora egli fa dei suoi nervi specie di molle d’acciaio che si piegano senza
spezzarsi…”
Honoré de Balzac (a proposito di un’idea padronale della vita)
“Ogni Stato incoraggia il servilismo e la lealtà tra i potenziali uomini di potere, ma anche tra
il ben più vasto numero di persone al loro servizio.”
Gabriel Kolko
Che cosa sono oggi le classi, o forse è meglio dire le caste dirigenti da cui dipende una parte importante dei destini mondiali e quindi anche dei nostri? Che cosa sono diventati i potenti della Terra dopo un secolo segnato da due guerre mondiali e da tanti altri conflitti diversi compreso quello in corso? Proviamo a porci queste domande da un punto di vista squisitamente umano, che appare certamente insolito se non inedito rispetto alle analisi tradizionali. Osserviamole dunque, le caste dominanti, attraverso il prisma antropologico delle radici prime.
Gli oppressori alla luce delle radici prime
La primarietà femminile, che i più “avanzati” tra i potenti rinnegano presentandola come finta parità tra donne ed uomini, è stata spesso promossa dalla politica in modo strumentale. In alcuni paesi democratici ci sono donne che ricoprono ruoli di un qualche significato negli ambiti statali o industriali, ma è estremamente raro che assumano le cariche fondamentali e comunque anche in quel caso lo fanno in una logica che è fondamentalmente maschile, rispecchiando così le dinamiche preponderanti nelle società il cui carattere patriarcale ed oppressivo colpisce soprattutto le donne. Guardando al passato recente ci rendiamo conto che il coinvolgimento delle donne durante le grandi guerre è stato molto relativo come combattenti e più significativo come lavoratrici. Nel primo caso non mancano, durante la Seconda guerra mondiale, significative prove positive date dal genere femminile in chiave di resistenza antifascista ed antinazista, ma soprattutto si conferma una radicale e generalizzata refrattarietà alla logica bellica dovuta alle qualità umane affermative generalmente inerenti il genere primo. Nel secondo caso siamo di fronte a un coinvolgimento maggiore delle donne nel lavoro, per evidenti ragioni di necessità bellica, con condizioni di sfruttamento maggiore rispetto ai lavoratori maschi, che sarebbero state confermate dopo la guerra1. Le soggettività umane, ad onta della irriducibile complessità che è loro propria, sono considerate da lor signori come cristallizzate e sotto il pieno controllo dei poteri negativi. Le persone sono trattate come individui isolati, a cui vengono fatte alcune concessioni e lasciati margini decisionali sempre più ristretti, da manovrare come strumenti produttivi e potenziali votanti. In luogo delle interpretazioni empatiche prevalgono le tabelle statistiche, le/i protagoniste/i cangianti delle aggregazioni sociali vengono classificati come numeri variabili e gestibili on-line in funzione degli interessi oppressivi. Le relazioni tra esseri umani vengono tollerate entro i confini del controllo statale, combinato possibilmente con quello religioso. La vetusta sanzione patriarcale non smette di intromettersi con leggi e condizionamenti di vario tipo, impedendo o ostacolando le libere ed insindacabili scelte di comportamenti sentimentali e sessuali tra adulti reciprocamente consenzienti e rispettosi. Le comunanze umane, potenziale regno della condivisione accogliente, liberamente e beneficamente scelta dalle persone, sono ridotte a comunità estranee ed anonime, oscure e minacciose, respingenti o escludenti. Razzismo e xenofobia dilagano dappertutto nell’Occidente, i cui capi non hanno imparato nulla, neppure a fronteggiare un pericolo che presenta qualche grave sintomo che rammenta la peste nazista. È stata la legge e la pratica plumbea delle guerre a sancire e peggiorare ulteriormente questa mortificazione alienante delle soggettività riscontrabile con accenti diversi in ogni società umana “ufficialmente riconosciuta”. Possiamo immaginarci la fredda e solitaria tristezza degli individui di potere che gonfiano il proprio ego non di rado fino a scoppiare. Sono incapaci di guardare al caldo, incantevole e problematico labirinto reale delle soggettività umane quale teatro della vita di ciascuna/o, loro invece credono di poter risolvere questo meraviglioso enigma tramite il gelido schema dei profitti (ovvero dello sfruttamento), le infrastrutture statali e repressive, l’istruzione coatta ed il terribile risiko del preparare e fare la guerra. Così il loro sguardo umano si è andato appannando, la loro stessa soggettività si è definitivamente impoverita, l’accortezza della soggettività complessa che si compone è scaduta nell’idiotismo della soggettività padronale bellica che si decompone, eppure questa nefasta parabola diviene non di rado un modello di riferimento per l’ambizione di persone indifferenti. La coscienza: misteriosa meraviglia sintetica delle tensioni, delle facoltà, delle intenzioni umane si aliena e si mortifica nella brama dei servi del potere negativo. L’intelligenza per loro è mero calcolo strumentale, la memoria distorta dai desideri famelici, la creatività asservita all’esproprio degli altri per il proprio accumulo, la ragione celebrata come dea sanguinaria che recita algoritmi fallaci, il sentimento significa l’odio per l’avversario, il nemico, lo sconosciuto e l’amor proprio per il denaro, la roba, le armi, il dominio cieco, e per se stessi in mancanza di meglio. È così che pensano alle persone, alle popolazioni, al pianeta, allo spazio: da predatori gaglioffi e insaziabili, conquistatori crudeli e incapaci, tiranni avidi e improvvidi. La loro è la più misera autoalienazione, il più squallido capovolgimento della grande meraviglia dell’essere e divenire umani: l’elevarsi del prendere coscienza ed arricchirla si ribalta nella misera coscienza coatta del prendere ed arricchirsi. L’umile e fantastica meta di ogni persona comune: provare ad essere più e meglio umani, viene da loro sovvertita nella superbia orrenda di credersi superuomini e nell’amara ma inevitabile sorpresa di scoprirsi, se mai ne saranno capaci, “realizzati” come disumani. Hanno appreso e sedimentato questa pestifera vocazione nelle guerre preparate, volute, compiute, perpetrando assieme a crimini inauditi anche errori clamorosi che svelano in qualche modo l’innaturalità dell’agire bellico per la nostra specie e ad un tempo l’ossimoro marchio di fabbrica della superborghesia: sono guerrieri imbecilli! Questo sanguinario percorso dell’oppressione ha causato danni immensi ma non irreparabili per l’umanità. Loro non prevedono appunto il prendere coscienza: perché non mettono in conto che ci sia un grado più elevato di coscienza concernente l’idea d’assieme di sé che ognuna/o può concepire e proiettare nel proprio vissuto; per loro alla gente dovrebbero bastare i grami destini offerti dal convento statale. Tantomeno possono comprendere, loro i signori della guerra e dello sfruttamento, ed immaginare – ma forse più semplicemente temono – l’esistenza di un vero e proprio big bang coscienziale che ognuno vive nella propria adolescenza e può cercare di interpretare, precisare, accrescere, grazie alle/gli altre/i, con e per loro. Questa processualità fondante viene negata teoricamente in nome della loro idea aberrante di natura umana, per cui il destino di ciascuno sarebbe già scritto nei geni e nelle origini sociali. Praticamente però si sforzano di intercettarla per ostacolarla o indirizzarla a modo loro, per esempio suscitando appetiti di successo confezionati come “vocazioni”, oppure garantendo un futuro “sicuro” sotto tutela; in ogni caso la più alta potenzialità individuale viene rimossa e ridotta a semplice apprendistato per trascinarsi come individui inevitabilmente asserviti, in alcuni casi con laute mance, ad un sistema oppressivo. Loro, gli eletti ed autoproclamati padroni del destino armi alla mano, hanno già apparecchiato le limitate possibilità di sopravvivenza nel soffocante quadro sociale e non possono accettare che una persona, prendendo coscienza, scelga liberamente del proprio bene e quindi di come interpretare la propria vita nel quadro esistente o eventualmente cercando di cambiarlo. L’istruzione familiare e statale è concepita e finalizzata ad impedire le capacità elettive al di fuori degli aut-aut che offre il contesto: è questa la premessa e la conseguenza dell’alternativa paradigmatica vigente nella logica bellica che li ispira: vivere per uccidere, uccidere per sopravvivere. Cinicamente lo canticchiano persino: “…siam pronti alla morte…”, mentre le persone rischiano di non essere pronte a vivere meglio oppure confondono questa legittima e incancellabile speranza con qualche distrazione all’apparenza glamour che lascia il tempo che trova o diffonde illusioni perverse. Le difficoltà in questo senso sono cresciute ulteriormente eppure i moderni satrapi non hanno potuto inventare un metodo per impedire l’urgere delle coscienze: cercano di sviarlo, nasconderlo, banalizzarlo, ridurlo a un titolo di studio o a una specializzazione lavorativa, oppure di offrire il loro cammino di perdizione come una sorta di ri(s)catto, ma nell’anima di ogni giovane alberga un’urgenza irresistibile che merita di essere riconosciuta, liberata, appoggiata. Sapere della propria coscienza insorgente è il passaggio decisivo per potere scegliere davvero il cammino della propria vita.
Quella del dominio oppressivo è sin dall’origine una cultura di guerra: le loro leggende ataviche sono intrise di morte come il racconto fratricida di Romolo e Remo e le variabili narrazioni religiose sono inequivocabili al riguardo. Cominciando dalla Bibbia con i suoi 60 e passa milioni di morti e continuando con l’uso sfacciato che il cristianesimo ha fatto dei suoi simboli e delle sue credenze a fini bellici: dalla didascalia “in hoc signo vinces” che Costantino affibbiò alla croce per andare in battaglia, fino alle crociate assessorate dal papato contro i musulmani. Eppure, dalle storie tramandate, non sembra affatto che Gesù di Nazareth fosse un uomo di guerra. Le grandi religioni sin dagli esordi dell’era oppressiva hanno presidiato, preceduto o accompagnato, con diversi contenuti e modi, l’affermazione delle varie forme di dominio in tempi differenziati in tutte le zone del mondo. La matrice comune è da rintracciare nella necessità di miti fondativi che potessero rendere credibile la menzogna della guerra come male inevitabile, cosa che effettivamente è stata anche in modo endemico perlomeno negli ultimi 3.000 anni mentre, al contrario, per quanto riguarda le decine di millenni precedenti le tracce che ci sono giunte indicano l’assenza o la presenza sporadica e limitata di vicende belliche. Dimostrare che la guerra è naturalmente inerente la natura umana giustificherebbe la necessità culturale di logiche e pratiche permanenti di guerra: ed è su questo eclatante falso antropologico che si basa lo statuto fondativo di ogni Stato e la formazione delle classi dirigenti, non senza cambi significativi intercorsi nel tempo.
La creazione degli eserciti ha immediatamente preceduto quella degli Stati e ognuno di questi ha usato la violenza organizzata, e la sua minaccia, in modo sistematico contro altre popolazioni come contro i suoi sudditi. Conseguentemente e coerentemente le classi dirigenti sono da sempre selezionate ed addestrate all’inganno e all’intrigo, alla razzia e all’imboscata, alla menzogna e al tradimento, all’omicidio e alla strage. Ciò non va inteso solo in senso stretto, concernente cioè le caste militari ed il loro agire, ma innanzi tutto in senso lato: la logica bellica è cioè qualcosa che permea in qualche modo – diretto o indiretto – tutta la formazione di ogni uomo di potere e, salvo notevoli eccezioni, li segna per sempre. Ogni loro ambito è connotato da un’istruzione competitiva tipicamente maschile, dalla necessità di prevalere, di imparare ad obbedire e comandare, di respingere e non accogliere, di carpire e manipolare, di raggirare e mentire, di usare l’empatia non per comprendere ma per ottenere dei vantaggi, di conquistare e non cedere, di offendere e usare, di essere vigili e spregiu icati, di sfruttare ogni situazione a proprio favore, di far prevalere la cosiddetta ragione raziocinante evitando dannosi sentimentalismi, di essere competitivi e cattivi. È così sin dalla prima educazione familiare, lo è nell’ambito scolastico e poi accademico, nel vissuto dell’amicizia, nelle letture e nelle relazioni interpersonali in un implacabile processo selettivo dove vige la regola belluina del “mors tua vita mea”. Questa temperie culturale viene suffragata e propagata dalle (e nelle) istituzioni statali e religiose, militari ed industriali ed essendo incentrata necessariamente sull’idea della guerra – in senso lato – e della morte – in senso stretto –, per definizione è caduca e decadente. Lo è precisamente e per ciascuno di loro: a ben guardare si evince nella loro crescente incapacità di comunicazione e di comprensione, nell’ignoranza clamorosa delle vicende umane più semplici e profonde, nei comportamenti goffi e ripetitivi, nell’incomprensione di questioni elementari, nelle reazioni meccaniche. Soprattutto la decadenza si manifesta, rapida, crescente e devastante nelle crepe che annunciano il crollo dei loro valori. Casomai ogni tanto li rammentano o li proclamano ma non si capisce bene di cosa stanno parlando. Sbandierano l’unità nazionale usando un evento sportivo; esaltano la libertà di stampa quando imperversano i grandi giornali di regime agli ordini dei monopoli economici; decantano le meraviglie dell’informazione quando sui social media vige la dittatura occulta dei magnati del web; blaterano di giustizia quando i potenti e i loro amici, i delinquenti di primo piano, se la cavano sempre mentre non di rado gli innocenti rimangono in galera; sostengono un sistema di istruzione dove si disimpara a leggere, a studiare, a ragionare, a immaginare, a ponderare; promuovono le bellezze delle vestigia del passato solo per fare affari. Per recuperare o trovare spunti culturali davvero degni di questo nome bisogna cercare o scavare con passione e tenacia e farlo in piena autonomia, (ri)appassionandosi alla lettura, all’osservazione, all’ascolto, alla visione, alla riflessione, alla creazione, all’elettività. Quindi allontanandosi dalla loro cultura decadente e pericolosa: casomai, come nel nostro caso, provare a fondarne una nuova assieme. Qual è dunque lo statuto e il comportamento morale ed etico dei ceti dominanti? Una risposta può già essere dedotta da quanto abbiamo esaminato, ma è opportuno esplicitarla ulteriormente. È possibile che alcuni detentori dei poteri oppressivi possano avere la parvenza di brave persone, per usare un linguaggio pop. Non possiamo neppure escludere che in origine fossero animati da buoni sentimenti ma in nessun caso possiamo credere che ignorino le immense malefatte compiute istigate o coperte dal loro ambito d’appartenenza cominciando dai crimini bellici perpetrati direttamente ed indirettamente per procura o autorizzazione, per alleanza o complicità silenziosa. C’è di più: perché tutti gli attuali personaggi che comandano su vari piani sono emersi dal secolo bellico per definizione, si sono formati e fanno parte in qualche modo – attivo o passivo fa poca differenza – di una stirpe sanguinaria che ha avuto la sua maledetta consacrazione con la Seconda guerra mondiale. Si tratta di un assieme dirigente differenziato per origini, litigioso, permaloso, competitivo su tutto e fra tutti ma unificato dalla mancanza di scrupoli di chi non ha mai saputo dire no a nessuna guerra e ne ha direttamente promosse, appoggiate, finanziate, facilitate tante. Quanto pesa questa immensa colpa? Domanda cruciale che probabilmente neppure si pongono trovando giustificazioni del tipo: “non c’ero” o “non sapevo” o “l’abbiamo fatto a fin di bene”. Insomma c’è una sorta di rimozione o dimenticanza collettiva ed individuale, una colossale menzogna seriale che già di per sé qualifica la pochezza morale di chi è coinvolto. A poco valgono certe autocritiche superficiali e tardive, qualche giornata formalmente celebrativa, alcune dichiarazioni untuose di buonismo moralista. Noi, se vogliamo davvero essere diversi, protagoniste/i di una morale ed un’etica della libertà positiva e dei beni comuni, fondatrici/ori di una cultura alternativa non possiamo dimenticare, rimuovere, sminuire questa verità terribile e nascosta, composta di tante oscure sfaccettature, su cui si fonda la società oppressiva: dobbiamo imparare a svelarla e ricostruirla costantemente traendone lezioni di fondo. La prospettiva affermativa e costruttiva di un’umanità migliore richiede, come necessario complemento, una pars destruens che smascheri gli immensi crimini impuniti dei nemici dell’umanità.
Conseguentemente a quanto analizzavamo, la dimensione etica viene da loro radicalmente rimossa o trattata come un affare di legiferazione statale con le conseguenze spesso dannose che conosciamo
La loro grande debolezza, la nostra piccola forza
In realtà i loro “valori” sono totalmente astratti e sottomessi agli interessi assai più egoistici e concreti che allignano in una società già di per sé corrotta e decadente. Il sommo interesse del dominio sulle donne, gli uomini e le cose utilizza la finzione etica – non di rado ammantata di una religiosità ipocrita – del benessere nazionale al fine di realizzare le finalità delle caste dominanti e delle loro istituzioni. Ciò avviene persino quando queste sono relativamente coese o decisamente disunite2, come spesso avviene in Italia. Questa processualità meccanica dell’oppressione si proietta su scala internazionale tra potentati oppressivi di diverso peso e capacità militar-industriali con un cinismo litigioso e competitivo che sfocia nei conflitti storici o momentanei oppure in alleanze strumentali tra consimili.
Così abbiamo la subalternità delle potenze europee alla potenza americana, vero e proprio “maschio alfa” della rapina a mano armata su scala mondiale mascherata dalla “difesa della libertà”; a ben guardare il capo branco delle democrazie oppressive e associati risulta acciaccato, cosa che lo rende ancor più prepotente. D’altra parte abbiamo la protervia degli autocrati russi che cercano il proprio spazio minacciando ed aggredendo militarmente vicini in difficoltà e provando ad esportare il proprio autoritarismo dittatoriale rozzo e brutale nel fare poliziesco ma pericolosamente raffinato nello spionaggio tecnologico a tutto campo. Altri potentati statali diversi crescono e proliferano, cominciando dall’India3 – la democrazia autoritaria più grande del mondo – che si affaccia come protagonista non facilmente decifrabile su scala internazionale e rappresenta un possibile incentivo per altri Stati insorgenti ed ugualmente pericolosi innanzitutto per le popolazioni che schiacciano e per le ulteriori minacce belliche che possono rappresentare.
Sullo sfondo, silente e possente, si staglia l’ultimo impero: la Cina forte di una storia lunga, sanguinosa e complessa attraverso cui ha forgiato una forza militare gigantesca sapendola contenere da decenni verso l’esterno, consolidando un’unità territoriale e un dominio ferreo sulle diverse popolazioni ed etnie che sono confinate all’interno dei propri confini, sviluppando un’economia che compete a tutti i livelli con le potenze occidentali e si fa strada attraverso la nuova Via della seta, forgiando un dominio di controllo, spionaggio ed intervento tecnologico direttamente gestito dal potere centrale, imponendo una rigorosa disciplina repressiva sui rapporti familiari. L’unità territoriale preservata a tutti i costi – passando per sussulti, rivoluzioni, regimi di diverso tipo – sigilla la peculiarità imperiale di Pechino rispetto alle altre potenze. Si tratta, come vedremo, di un modo diverso ma non perciò meno pericoloso di concepire la priorità bellica secondo una filosofia millenaria dell’oppressione e della guerra stessa. Se torniamo alla più stretta attualità e agli obiettivi che sta perseguendo la coalizione targata Usa è manifesta l’ottusità delle élite4 in questione tanto rispetto ai risultati che possono ottenere su scala internazionale, dove è possibile che altre potenze, cominciando appunto dall’impero cinese, possano approfittarne sul piano economico, quanto alle conseguenze sul piano domestico. È evidente infatti un disinteresse o un distacco da parte delle popolazioni occidentali nei confronti del conflitto in corso ed è prevedibile una loro reazione negativa a causa dell’aumento del costo della vita e dei problemi di rifornimenti energetici. Sono manifestazioni di un problema più generale concernente la difficoltà crescente (ma non nuova) delle caste al potere nel saper comprendere le aspettative dei suoi stessi sudditi e l’oscillazione costante che hanno dimostrato storicamente nel sopravvalutare o viceversa sottovalutare le reazioni popolari agli eventi bellici.
Questa rapida esplorazione della realtà antropologica dei potenti ci può aiutare a comprendere l’insanabile contraddizione tra la loro potenza materiale e la loro debolezza umana. La dimensione bellica, primaria e fondativa, offusca in generale il loro sguardo sulla civiltà. L’idea che si fanno del comando politico ed industriale è derivata anche inconsciamente dalle regole scritte con il sangue nei campi di battaglia. Le statistiche e le informazioni di cui si nutrono sono quelle che ritengono a loro più convenienti: ascoltano ciò che vogliono sentire precisamente come hanno fatto gli stati maggiori degli eserciti specie nella contemporaneità. Cercano affannosamente il consenso per quanto contingente ed effimero possa essere. Si soffermano sul superficiale e l’immediato, lo rincorrono affannosamente sperando nel trionfo subitaneo ma in realtà preparando nuove sconfitte sui tempi lunghi. Ciò appalesa ed accresce un’incredibile, e spesso non immediatamente percepibile, irragionevolezza dilagante che contraddice la loro pretesa di ragione raziocinante a tutti i costi ma si piega e si spiega nel carattere irrimediabilmente irrazionale5 e disumano della guerra – su tutti i piani – dalla cui scuola provengono e alla cui meccanica fatalmente fanno ritorno. L’empirismo più banale regna sovrano nelle strategie del dominio creando nuovi problemi ed aggravando i disastri per le persone comuni.
Quanto sosteniamo è rintracciabile in mille segnali piccoli e grandi della vita quotidiana e ci invita ad una seria riflessione su noi stessi. Far leva, ovvero comprendere ed imparare a praticare in tutti i campi affermativamente, in positivo e in negativo, le nostre radici primarie ci rende capaci di fondare e vivere da subito assieme una vita migliore. Il nostro progetto visionario e concreto è più credibile, più prezioso, infinitamente più benefico del loro gigantismo cieco e sordo. Pensare, provare, paragonare, dialogare per credere e scegliere. (8/continua)
note
1 Su questi temi si è soffermato in modo acuto e diffuso nella sua opera: Gabriel Kolko, Il libro nero della guerra, Fazi Editore, 2005; si veda in particolare pag. 109 e seguenti, poi ancora i capitoli 6, 8, 9 e 10.
2 Vedi per esempio: Kolko, op. cit. pag.19.
3 Per l’analisi dal punto di vista umanista socialista dei tratti peculiari dell’oppressione nel grande paese asiatico si veda la serie di articoli di Piero Neri pubblicati su La Comune numeri 402, 403 e 404.
4 Sul ruolo e la conformazione delle élite nell’ultimo secolo in conseguenza alle dinamiche belliche si veda ancora Kolko cominciando da pagina 15 e poi con diversi accenni nei capitoli 3 e 4.
5 Sostiene ancora opportunamente Kolko: “La guerra, in sostanza, è sempre stata un’avventura intrinsecamente irta di sorprese o di false aspettative, con un esito complessivo imprevedibile