Antropologia della decadenza le prime radici e l’ultimo impero/11

RADICALITÀ VALORIALE O DOGMATICA STATALE?

“Il bene può manifestarsi nei modi più diversi, però il suo sostrato più essenziale è quello di servire al prossimo, cioè a dire, si sviluppa nell’intimità dell’individuo come desiderio o necessità di tendere la mano agli altri e di contribuire alla loro felicità.”
Heleno Saña

“Nell’insieme, sembrerebbe che aiutare gli altri sia naturale per i piccoli esseri umani e sia motivato intrinsecamente da sentimenti di simpatia.”
Michael Tomasello

Conferme mistificanti

L’esistenza e l’importanza, la dinamica e l’intreccio delle radici antropologiche è ribadita da costanti e molteplici esempi positivi che chiunque può osservare e sperimentare nella vita quotidiana. Al contempo è significativa la prova a contrario: le nostre origini primarie sono confermate e ribadite anche dal contrasto e dall’attacco permanente esercitato dai poteri negativi nei loro confronti e dai pregiudizi del senso comune che ne derivano. Conviene insistere su questo aspetto che abbiamo cominciato a trattare negli ultimi due capitoli.

Pensiamo alla demagogia ossessiva della politica decadente nel promuovere figure femminili – da Indira Ghandi a Giorgia Meloni – al fine di garantire gli interessi oppressivi maschili tentando a un tempo di compiacere la maggioranza delle popolazioni dominate. Sottolineiamo che questa storia di inganni è cominciata non a caso quando il patriarcato si era già saldamente affermato contro l’alleanza tra i generi prevalente nella Prima era. Nell’Antico testamento il ruolo di Eva è quello della dissoluta traditrice, ma nella vulgata evangelica e conciliare, invece, la Madonna viene consacrata come “madre di Dio”. Nell’antica Grecia le donne furono recluse ed escluse, salvo la misteriosa probabile eccezione spartana1; la maggioranza delle principali scuole filosofiche tennero fuori le donne, in controtendenza le ammisero invece quella epicurea e quella pitagorica, dove assursero anche a ruoli importanti2. Nel mondo romano andò anche peggio, con qualche effrazione intestina come quella di Cornelia e con la straordinaria eccezione della sciamana trace ispiratrice della rivolta di Spartaco3; solo nel tardo impero troveremo esempi di donne in ruoli di primo piano, conformi al mondo tutto maschile dei potenti, tra tutte ricordiamo Iulia Domna4. Nel corso dei secoli la condizione femminile non migliorò, anche grazie alla ferrea e mai infranta alleanza tra potentati religiosi e politici, anzi, i meccanismi della sottomissione violenta del genere femminile si inasprirono: al di là della dimensione bellica, dov’era già feroce e costante regola e “compenso” per i vincitori, lo stupro divenne “famigliare”, oscenamente ed emblematicamente sancito come “ius primae noctis”. La formazione dello Stato moderno rappresentò, con tempi e forme diverse nelle varie zone del mondo, la razionalizzazione dell’oppressione di genere al servizio del capitalismo nascente con poche e relative concessioni alle maggioranze femminili. Prepotenze e violenza rimasero quale fetentissima elemosina concessa ai maschi di ogni condizione e strato sociale. Come sempre la guerra rappresentò l’orrendo sigillo e la fucina moltiplicatrice dell’abuso e della violenza carnale contro donne, bambine e bambini: basti pensare a ciò che fecero le truppe imperiali giapponesi alle donne cinesi o le orde staliniste russe alle donne tedesche, solo per citare due tra gli esempi più efferati. Le democrazie hanno cercato di porre qualche freno anche legislativo a questi imperdonabili delitti, ma i loro eserciti e tanti sudditi civili non hanno mai smesso di scatenare la loro frustrazione con violenza spesso sfociata nel femminicidio come è testimoniato dalle cronache quotidiane. Il femminismo delle origini e fino agli anni ‘70 ha costituito un argine e in certi casi una controspinta alla furia maschilista, contribuendo a sensibilizzare e a permettere la mobilitazione di tante donne per alcuni loro diritti ed un maggior margine di libertà, senza però riuscire a sviluppare un discorso più radicale in difesa della primarietà femminile. La cappa patriarcale è stata solo intaccata. Concessioni e promozioni “in rosa” – cui si prestano donne di successo per propagandare una presunta parità – rappresentano una mistificazione riduttiva delle qualità e potenzialità femminili e fattualmente una copertura dell’oppressione. Come prova dell’avanzamento viene esibito il reclutamento delle donne nelle forze repressive e negli eserciti: cioè l’asservimento all’esercizio della violenza bellica e poliziesca cui le donne si sono da sempre mostrate estranee. Come dimostra anche il comportamento di tante donne ucraine nel conflitto in corso, questa operazione di servitù militare ha scarso successo: la grande maggioranza delle donne sono da sempre, per natura e per scelte, refrattarie alla guerra.

La peculiarità delle soggettività umane consiste nel loro permanente ed inevitabile comporsi da cui ne deriva la straordinaria complessità. È una processualità dinamica che scompiglia l’ottica unicista e cristallizzata degli oppressori. La loro incapacità di comprendere ed accettare l’inesauribile, ed in parte inafferrabile, peculiarità della nostra specie si evince, anche su questo terreno, dagli assurdi racconti che ne fanno tendenti a separare le figure di cui ognuno/a è costantemente protagonista anche inconsciamente. Eppure non possono ignorare né tantomeno abrogare il fantastico caleidoscopio delle soggettività: perciò provano ad ingabbiarle e sminuirle, a depotenziare le immense e molteplici risorse che in esse risiedono e di cui siamo creatrici e creatori unici e determinanti. Così l’individuo viene considerato separato e passivo, enumerato, misconoscendo il suo essere persona protagonista di rapporti con altre persone e quindi rimuovendo il suo ruolo nel farsi degli assiemi sociali e a maggior ragione svalutando la potenzialità della personalità che alberga in ciascuna/o. Abbiamo già preso in esame il tentativo statale di regolamentare e controllare la relazionalità e di difendere l’attuale società massificata ed estranea come una presunta inevitabile pietrificazione delle capacità collettive. In compenso l’affanno ideologico, istruttivo ed alienante dei poteri negativi contro le soggettività ci racconta della loro indomabile vitalità.

Attorno alla coscienza si sono avviluppate molteplici definizioni che stanno a significare la permanenza di questo meraviglioso mistero, di cui tuttavia sappiamo la potenza vivificante che ritroviamo profondamente agente in ciascuna delle radici e che innanzitutto ci permette di coglierle ed interpretarle. Le elucubrazioni filosofiche hanno spaziato dal puro significato psicologico fino a teorizzare la “coscienza infelice”, ovvero in principio intesa come sofferenza, come fece quel genio della negatività trionfante che fu il sommo Hegel5 – chi altri sennò? – seguito a ruota da quell’altro cantore di sventure di Nietzsche, che la classificò come sintomo di un disordine connaturato all’umano (sic!?). In tutt’altra direzione, ben più significative ed importanti, andavano le riflessioni di Leibniz6, riprese ed approfondite da Kant7 che ci dice della coscienza in generale o “autocoscienza pura”, approssimandoci a un’idea feconda, ancorché necessariamente incompleta ed approssimativa, del livello più alto della coscienza profonda8 che veniamo conquistando in un processo costante che matura nell’adolescenza e continua a svolgersi nel percorso esistenziale. Le scienze cognitive, la neurobiologia, la psicologia evolutiva ci suggeriscono talvolta spunti interessanti e positivi a riguardo, che però sono sistematicamente ignorati dai poteri costituiti e dalle loro istruzioni coatte. Di fronte al fondamentale enigma coscienziale, che è tale sin dal suo principio, fanno calare un silenzio greve ed ipocrita: intuiscono il pericolo che rappresenta per loro. Al contrario, la coscienza è una risorsa straordinaria affinché le persone comuni possano scegliere e riconoscersi come personalità, protagoniste relazionali, costitutive di comunanze.

Forse l’unica radice umana che Stati e religioni tendono a dare per scontata è quella culturale: credono di poterla gestire a loro piacimento e non si accorgono del decadere precipitoso dei loro edifici ideologici o lo sottovalutano grandemente. Pensano che una spolverata di facciata ogni tanto o la restaurazione improvvisata di qualche dogma vetusto, casomai accompagnato dall’ennesima riforma del sistema istruttivo- repressivo e soprattutto dall’intossicazione della mente indotta da internet, basterà a salvare il loro arsenale ideologico. Si sbagliano di grosso, perché la crisi generalizzata delle diverse culture dominanti è profonda e irrefrenabile, e al contempo l’urgenza di culture vive e rinnovate si fa strada lentamente ma inesorabilmente anche tra la gente comune. Per ora produce soprattutto sussulti, incomprensioni ed una certa entropia anche dal basso, aggravata dal fatto che le varianti culturali progressiste o anticonformiste si sono stinte o perdute perché in linea di massima sin dall’inizio erano subalterne ai canoni e alle categorie del pensiero dominante oppressivo, misterico e mistificante. Il cammino per nuove fondazioni culturali è lungo, paziente e complicato ma lo sforzo che comporta è proporzionale alla posta in gioco: qualsivoglia possibile alternativa richiede una visione ideale d’assieme, quantomeno un principio di fondazione culturale ed educativa autentica. Ciò nella nostra visione significa basarsi su principi teoretici chiari ed espliciti, fonti riconoscibili, una capacità ed un impegno coerente e creativo per l’emancipazione – cominciando dal linguaggio. Insomma un ingaggio responsabile e costante, accompagnato da una processo formativo ed autoformativo organico e stabile.

Crocevia etico e morale

Quanto più andiamo e torniamo sulle cinque radici, da svariate angolazioni, tanto più ci troviamo in un groviglio che sembra inestricabile per come si manifesta e si sviluppa chiamando in causa in modo repentino o indiretto, usuale o del tutto insolito questo o quell’aspetto di ciò che è irriducibilmente umano. Succede che una singola esperienza o un movimento elementare del pensiero ci riveli o ci insegni d’improvviso, per affinità o per contrasto, in modo semplice oppure bizzarro, l’intrinseco legame labirintico dell’assieme delle nostre radici prime.

Se impariamo ad osservare gli altri – e ad osservarci – con più attenzione, possiamo accorgerci che da qualsiasi spunto, ancorché superficiale, possiamo risalire ad una processualità laboriosa e feconda, agente in profondità, delle prerogative antropologiche che si vengono combinando, e possiamo comprendere che questa nostra processualità non è mai neutra. Anzi si qualifica per la propria dinamica e in un senso determinato nella misura in cui viene valutata dal punto di vista degli esseri umani concreti agenti o spettatori in quel frangente. Valutazione che certamente dipende da molti fattori, in primis dalle nostre tensioni connaturate o predisposizioni che ci sospingono e nel vissuto concreto attivano le facoltà di pensiero e quindi le intenzioni concrete del nostro agire. In particolare il sentimento è sollecitato e mobilitato, in forma implicita ed esplicita, sia nelle nostre posture intime che nei nostri atteggiamenti morali; di conseguenza orienterà e condizionerà la nostra ricerca e condotta affettiva. Questo processo intimo, che possiamo riconoscere come naturale e culturale ad un tempo, riguarda ogni essere umano già in fase precosciente, poi lo coinvolge ancor più chiaramente dalla presa di coscienza in avanti: è un processo indirizzato e variabile da un punto di vista valoriale. In altri termini, qualificato dalle idee che abbiamo, a loro volta assorbite e rielaborate dal contesto culturale di provenienza, dai fini che perseguiamo e condizionato dalle sensazioni ed emozioni che proviamo: ciò che primeggia è la nostra concezione del bene del vivere la vita e quindi il modo in cui lo perseguiamo in generale e in particolare. Abbiamo delle idee generali, complessive che ci ispirano e ci orientano e diventano immediatamente agenti e diversamente riscontrabili in ogni aspetto dell’esistenza, perciò dal punto di vista del soggetto sono estremamente significative e concrete nella loro realizzazione, parziale o totale, lineare o contraddittoria e viceversa lo sono altrettanto nel loro eventuale fallimento. È necessario considerare che questo turbine intimo ininterrotto viene del tutto ignorato o considerato banalmente, se non addirittura trattato come occasione di condizionamento, da parte delle istituzioni oppressive per controllarlo, condizionarlo, casomai tramite una “medicalizzazione” spesso e volentieri antiscientifica e machista come quella della psicanalisi freudiana.

Stiamo ragionando sulla radice morale ed etica che contraddistingue tutte/i e ciascuna/o chiaramente nel corso di tutta la nostra vita cosciente. Già in questa affermazione scorgiamo la proiezione o, diremmo meglio, la coessenzialità della nostra radice morale ed etica alle altre radici. Intuiamo anche essere la radice che ci qualifica maggiormente in termini attivi ed espressivi perché riguarda il modo in cui concepiamo, cerchiamo, pensiamo, sentiamo, ci rapportiamo alle altre e agli altri che possono rappresentare, realizzare o condizionare, ampliare o ridurre la nostra libertà, il nostro bene, come noi al tempo stesso influiamo in qualche modo su di loro.

Si tratta dunque di una radice che immediatamente colora e qualifica con decisione le altre sin dall’origine.

Quello che esprimiamo a proposito della primarietà femminile è comunque un giudizio di valore, non solo per quanto concerne le singole persone ma per come consideriamo le donne in genere e per il significato che hanno nella nostra esistenza. Se ciò è vero al maschile, a maggior ragione in altri termini lo è tra le donne stesse.

Le soggettività – individuali, relazionali o collettive che siano – non sono mai una vacuità irrilevante moralmente, persino quando solo sfioriamo con lo sguardo una persona estranea. L’altra persona è immediatamente anche soltanto intuita come speranza o al contrario come minaccia. Può darsi che invece ci appaia semplicemente insignificante: anche in questo caso si attiva, tramite l’empatia, il nostro sistema emozionale per riconoscere il grado di simpatia che quell’altro essere sconosciuto ci suscita. Una conoscenza o un rapporto che appena albeggia, o anche solo ci appare come possibile, è subito percepito come foriero di crescita benefica o di conflitto; spesso erroneamente, perché la nostra percezione sensoriale delle emozioni e le valutazioni simpatetiche che ne derivano hanno bisogno di un supporto, di una verifica coscienziale e sperimentale ad un tempo. Ne consegue la necessità di comprendere che la misura intima dei nostri valori non può mai prescindere dalle sollecitazioni e dai condizionamenti che derivano dal contesto sociale di cui facciamo parte, che rappresenta direttamente ed indirettamente il retroterra e il riferimento etico dei nostri atteggiamenti morali. La collettività che abbiamo di fronte o da cui siamo coinvolti ci condiziona: è motivo di sicurezza o timore, accoglienza o rifiuto. Intuiamo il nostro giudizio morale sulle e delle altre ed altri – anche intesi come collettività, come gruppo, come folla – ancor prima di conoscerli: il che ci svela l’impronta radicalmente soggettiva, singolare, reciproca e plurale della nostra moralità ed eticità. Al tempo stesso ci rivela quanto i due termini siano profondamente intrecciati tra loro. Se la mia idea di bene ha motivazioni, accenti e coloriture personali, può concretarsi e completarsi, verificarsi ed inverarsi nella relazionalità, ed acquisire una valenza più solida e praticabile nel concepimento come nel vissuto della dimensione comune, tramite presenze dirette ed indirette di attrici/ori protagonisti o comparse, referenti importanti o semplici spettatori ovvero di ciò che chiamiamo società. (11/continua)

Note

1. La reale condizione delle donne a Sparta rimane avvolta dal mistero per la carenza di fonti dirette a riguardo, anche se le testimonianze concernenti l’epoca classica andrebbero nel senso di una loro autonomia relativa molto maggiore di quella esistente ad Atene. Soprattutto esiste una fonte indiretta ed insospettabile a riguardo: Aristotele, che si scagliò ferocemente contro le parziali libertà femminili concesse nella città di Sparta, parlando di “…molti affari sbrigati dalle donne.” Si veda a proposito Aristotele, Opere vol. 9, Politica, pag.56-58, Laterza 1973.

2. Si veda a riguardo il lavoro dello studioso francese del ‘600, che contribuì ad infrangere i silenzi di tanta parte della storiografia filosofica: Gilles Ménage, Storia delle donne filosofe, Ombre Corte 2016.

3. Si veda a proposito la ricostruzione di Barry Strauss, La guerra di Spartaco, Laterza 2009.

4. Una ricostruzione romanzata di questa personalità viene fatta da Santiago Posteguillo, Iulia storia di un’imperatrice, Piemme 2019.

5. Si veda a riguardo la prefazione alla Fenomenologia dello spirito di Hegel.

6. Si veda in particolare Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano, pag. 295 e segg. e 395 e segg., Bompiani 2011.

7. Si veda in particolare Kant, Critica della ragion pura, vol. 1, pag. 132 e segg., Laterza 1971.

8. Ho scritto della coscienza, tra l’altro, in Dario Renzi, Esseri relazionali e sentimentali; si vedano in particolare pag. 221-234, 333-337, 481-484, Prospettiva Edizioni 2017.