Lo scorso 8 maggio un’orrenda strage è stata compiuta in una scuola di Kabul: l’autobomba ha provocato oltre sessanta vittime e centinaia di feriti, per lo più studentesse tra gli 11 e i 18 anni. I talebani hanno respinto ogni responsabilità per un crimine la cui efferatezza non è, purtroppo, una novità.
Obiettivi designati: giovani donne, studentesse, di famiglia modesta, per lo più appartenenti a una minoranza etnica, quella hazara, e religiosa, musulmana sciita. Né le truppe internazionali – in procinto di lasciare il paese dopo 20 anni di occupazione – né le forze di sicurezza del governo hanno mai mostrato interesse a difenderle, nonostante i numerosi precedenti di questa permanente guerra contro persone innocenti e soprattutto contro le donne e contro la loro aspirazione a studiare. Ricordiamo, tra gli altri, l’attentato a un reparto di maternità nel maggio del 2020 e quello a una scuola nell’agosto del 2018.
Fra tanto orrore, spicca la reazione delle giovani sopravvissute e dei loro compagni: “Non ci arrenderemo mai”, ha dichiarato uno di loro. “Riprenderemo da dove cadiamo. Niente ci impedirà di ottenere una istruzione”, dichiara la giovane Madina Nekzad, echeggiando la decisione dei parenti delle vittime che già negli anni scorsi hanno investito il denaro raccolto per i funerali dei propri cari in spese per l’istruzione di altre e altri giovani. Una poesia, scritta da una studentessa all’indomani dell’8 maggio, dichiara fieramente: “Saremo ancora più forti. La nostra penna sarà la nostra arma. Li combatteremo con la penna. Ora ho capito: hanno paura di noi, perciò ci pugnalano alle spalle”.