Aung San Suu Kyi ha ricevuto nel 2012 il Nobel della Pace, è stata simbolo della “resistenza pacifica ” e icona del ritorno della Birmania alla democrazia dopo la dittatura militare: ora trionfa di nuovo nelle seconde elezioni dell’era democratica svoltesi domenica 8 novembre. La “orchidea di ferro”, come viene soprannominata, ha nello stesso tempo difeso – e tuttora difende – le feroci persecuzioni e pogrom dei militari contro la minoranza musulmana dei rohingya, sottoposti ad un vero e proprio tentato genocidio.
Nel 2017 in ben 900.000 sono stati costretti a rifugiarsi in Bangladesh, ove vivono in condizioni disumane nei campi profughi. Naturalmente non hanno potuto votare, né loro né i rohingya rimasti in Birmania e sottoposti a persecuzioni: Suu Kyi ha sostenuto che “non esistono” come minoranza, sono “immigrati illegali” e tra loro vi sono “terroristi”. Li ha consegnati agli aguzzini, meritandosi così l’appoggio del criminale e crescente nazionalismo e razzismo buddista presente nel paese.
Democrazia, razzismo e persino genocidio non sono incompatibili tra loro, anzi. Una nuova, ulteriore e drammatica prova ci viene dalla Birmania.