“La scienza senza coscienza non è che la rovina dell’anima”
Rabelais
La coscienza è inafferrabile perché ha un’ampiezza misteriosa e plastica. Così diventa coscienza delle nostre origini proprie, ritrovando tracce confuse di una primarietà materna soffusa e confusa, gioita o patita. Mentre si afferma come regno inviolabile del nostro io appare fugace come coscienza speciale e specifica delle altre e degli altri intesi come individualità irriducibili e spesso irraggiungibili perché ignote; oppure erompe clamorosa, insistente, come coscienza delle persone per noi particolarmente importanti. Sarà quindi coscienza di relazioni condivise e in una qualche misura potrà essere reciproca. Intanto il nostro protagonismo quotidiano, per quanto ripetitivo e non di rado alienante, comporterà una qualche coscienza del sociale, inerente cioè la collettività di cui siamo e ci sentiamo più o meno convintamente parte, così come prendiamo coscienza superficialmente di altre collettività conosciute vagamente o solo per sentito dire. Può sembrare succube della cultura dominante nel contesto in cui viviamo ed in parte lo è, ma la coscienza può ribellarsi e fornirci l’abbrivio per approcci culturali alternativi. Essendo per ogni essere umano il luogo inviolabile della valutazione del bene sarà sempre coscienza morale.
Verifichiamo ancora la potente peculiarità di ciò che chiamiamo coscienza e che ci rende unicamente umani: la sua onnipresenza qualifica la nostra vita in modo vivido eppure sfuggente, non di rado è nitida ma anche approssimativa ed è sempre in fieri. Persino una coscienza scarsa, contraddittoria, ci sospinge spesso –se non sempre – ad esprimere un giudizio valutativo: è un tratto distintivo della nostra specie, una potenzialità speciale meravigliosa e delicata, vigorosa ed imprecisa, indispensabile ma spesso ingannevole. Ci induce non di rado ad errori anche gravi, trasformando semplici intuizioni in ferme convinzioni, elevando percezioni iniziali a sapere compiuto, confondendo visioni sognanti con la realtà della vita.
Un cammino difficile, disseminato di false piste, ostacoli e trappole, quello della nostra coscienza sin dalle sue prime movenze. Le complicazioni costanti sono direttamente proporzionali all’ampiezza ed alla ricchezza, alla permanenza e all’imprevedibilità delle funzioni coscienziali. Un anelito costante verso la coscienza ci accompagna probabilmente sin dal cambio cognitivo e rappresentativo che comincia a prendere forma tra i tre e i quattro anni di vita, quando il senso del sé si affaccia dentro di noi. Successivamente il cammino sarà lungo, luminoso e contorto, sorprendente e doloroso. Difficoltà o facilitazioni dipendono sempre anche dai contesti; quelli macroscopici – come le società e le loro forme aggregative, le culture (religiose e laiche) dominanti, le epoche in cui nasciamo – si combinano con quelli dei microcosmi in cui viviamo: la famiglia ristretta ed allargata, le principali figure di riferimento – cominciando dalle madri o chi ne fa le veci –, la classe di provenienza, l’ambito scolastico, le prime amicizie e le cotte, gli episodi o le letture, i filmati o i racconti che avranno su di noi un impatto speciale. Nel percorso della conquista coscienziale possiamo essere motivati o repressi, incoraggiati o impauriti, facilitati oppure ostacolati ma insorge una certezza che è tutt’uno con il maturare della coscienza stessa: dipende da noi la trasformazione del sé parzialmente consapevole nell’io pienamente cosciente. Un traguardo fondamentale e fondante che vorremmo condividere con il mondo intero ma che al tempo stesso significa una visione unica della nostra intimità più profonda. Non possiamo consegnarla tutta intera neppure alle persone più amate, perché mentre lo facciamo la nostra coscienza cambia per il fatto stesso che la stiamo donando e perché il suo operare risponde alla pluralità dei nostri stati e delle nostre capacità psico-fisiche nel loro permanente e spesso imprevedibile combinarsi. Prendiamo ad esempio la complicata delicatezza del giudizio cosciente, semi cosciente o incosciente (sono altrettanti gradi della coscienza) che posso dare di una persona o posso avere di me stesso: ciò che chiamiamo autocoscienza. La coscienza elabora e generalizza le nostre conoscenze, rende esplicito e folgorante alla nostra mente e a tutto il nostro corpo ciò che conosciamo, lo generalizza, lo idealizza anche, ma al tempo stesso ci fornisce il profilo e la consapevolezza irrinunciabili di noi stessi e degli altri – persino approssimando o trascendendo la conoscenza che ne abbiamo – spingendoci a grandi e audaci imprese o a miserabili cadute, a mirabolanti decisioni o al blocco delle scelte. La coscienza ha innumeri sfaccettature ma è sempre frutto sentimentale dell’intreccio tra le nostre radici, di cui ci fornisce visioni cangianti, e si inoltra nei nostri caratteri più intimi. La sua opera di collaborazione attiva, discreta o clamorosa, con ciascuna e tutte le nostre capacità essenziali; la sua dipendenza – talora saggia, tal altra dissennata – dalle esperienze; le sue non pronosticabili variazioni nel corso dell’esistenza: tutto ciò è vero e verificabile ma ancora non esaurisce la sua funzione più alta e misteriosa, eclatante e mai pienamente esplicabile, sovrana e sfuggente, che si affaccia quando ci interroghiamo sulla nostra essenza più profonda e sul significato della vita oppure, e soprattutto, quando diciamo agli altri e a noi stessi: io sono!
Coscienti della nostra intimità
La straordinaria polivalenza della nostra coscienza si invera nei diversi stadi che essa attraversa anche in una giornata qualsiasi. Passiamo dalla coscienza di essere svegli a quella di una qualche decisione più impegnativa presa in collaborazione con le nostre qualità psico-fisiche, fino a poter assurgere alla pienezza dell’affermazione individuale. Questa coscienza alta ha talvolta una sua stravagante invadenza, poiché interviene anche quando è indesiderata, inaspettata o può sembrare impropria alle altre persone.
Pensiamo a quel lampo meraviglioso, illuminante ed accecante, che ci fa sentire lo splendore dell’interezza della vita a cui siamo predisposti e di cui siamo protagonisti unici e mai soli: avvertiamo e ci permea interamente quell’élan vital, per dirla con la bella espressione di Henri Bergson, in cui si traduce la biofilia umana. Raffiguriamo noi stessi in ciò che più essenzialmente ci caratterizza. Così possiamo avere, ed in effetti abbiamo, una raffigurazione astratta dell’essere attratti ed attrattivi per le/gli altre/i: ciò in cui radica sin dalla notte dei tempi la simpatia collaborativa e cooperativa – o all’opposto la competizione e il conflitto – urge dentro di noi in una vivida ma sfuggente rappresentazione cosciente. Non è forse vero, d’altronde, che sappiamo di poter rappresentare astrattamente persone e cose denominandole e d’altra parte possiamo trascendere il sensibile fino ad immaginare divinità, paradisi ed inferni, altri mondi utopici o distopici? La coscienza pulsa ed urge, curiosa ed invadente, discreta o scandalosa, ma rimane ignota forse anche perché è una tensione variabile essa stessa.
Possiamo non soffermarvici, ma tendiamo ad avere coscienza delle nostre facoltà mentali, non necessariamente quando le esercitiamo ma comunque è sottinteso il sapere di possederle. Perciò conosciamo grosso modo i caratteri della nostra intelligenza anche al di là di questa o quella intuizione ed in questo senso abbiamo intelligenza di noi stessi. I nostri ricordi possono essere più o meno nitidi o sfocati, ma in principio sappiamo di poter ricordare ed anche come tendiamo a ricordare: specialmente in questo caso la coscienza, obbedendo al suo oggetto, diviene imprecisa e capricciosa, partigiana sempre e non di rado imbrogliona come la memoria stessa. Siamo posseduti dalle stranezze e dai traffici, formidabili o macchinosi, della nostra ragione e spesso ci confondiamo nell’usarla, eppure siamo coscienti di possederla, di poterla e doverla usare; pensandoci meglio è probabile che siamo capaci di descrivere come assembliamo il nostro pensiero: appunto, possiamo avere coscienza delle capacità combinatorie della ragione. Che succede quando ci troviamo di fronte ad una situazione inaspettata o inedita? Proviamo ad inventarci qualcosa e possiamo farlo perché siamo coscienti che ne abbiamo la facoltà; è coscienza della creatività che si applica a noi stessi diventando reciprocamente creazione della nostra coscienza: da maneggiare con cura per le alterazioni che possono derivarne.
Alterazioni che possono insorgere proprio anche dal tentativo di cristallizzare o forzare questa straordinaria ma inafferrabile qualità nostra che si chiama coscienza. Il suo regno incontrastato è la sentimentalità. Infatti il sentimento che proviamo di noi stessi, come quello che proviamo per altre persone, germoglia e scaturisce da una rappresentazione combinata di realtà e desideri, potenzialità e aspettative, volontà ed opportunità, tensioni ed intenzioni. Implica un intervento attivo e complessivo della coscienza di sé e dell’altra/o – non necessariamente in quest’ordine, anzi – ma è allo stesso tempo la ricerca, talvolta smodata, della coscienza di sé per e con un’altra persona e di quella persona per noi e in se stessa: è la coscienza come anelito al raggiungimento della felicità propria ed altrui che tutto sovrasta.
La potente spinta coscienziale ci sospinge, ineffabile ed inafferrabile, nell’intenzionalità concreta verso il nostro prossimo. Il medesimo slancio intimo permette a ciascuna/o, interpretando liberamente o infrangendo i supporti culturali su cui può contare, di farsi una propria idea del mondo in cui viviamo e dei caratteri della nostra specie. Così si vengono declinando a proprio modo le ideologie cui ci si richiama e si tende ad avere una propria relativa autonomia e capacità di giudizio. Di conseguenza ogni individuo cosciente è possibilitato e capace di intendere e giudicare gli altri esseri umani in generale, quali che siano le sue fonti e le sue effettive conoscenze, per come si esprimono nelle diverse sfere dell’esistenza e di valutarne il significato dal punto di vista dei propri interessi. È evidente che ciò può essere inteso in senso simpatetico, universalistico e filantropico o viceversa in chiave prepotente, xenofoba e razzista con tutte le sfumature intermedie che possiamo immaginare. A maggior ragione la coscienza individuale, nella sua sfrenata autonomia, ci fa credere tutti in qualche modo psicologi, capaci di interpretare e vagliare l’affettività non solo propria ma altrui: se questa affermazione vi sembra azzardata per la complessità e l’imperscrutabilità dei sentimenti umani provate a dare un’occhiata in giro e soprattutto guardiamoci allo specchio sottomettendoci ad un esame autobiografico. Scopriremo che noi stessi e qualsiasi persona che conosciamo è pronta e disposta a valutare, in modo più o meno approssimativo, non solo che tipo di attrazione, indifferenza o repulsione prova per altre persone che gli sono appena note, quindi a maggior ragione per chi conosce meglio, ma persino a farsi un’idea sul tipo di sentimentalità verso cui quella persona è orientata. Questa intenzionalità può facilmente scivolare in una prepotenza ingenua ed anche invadente e si spiega perché l’aspetto saliente ed incombente nonché più misterioso della nostra coscienza e di quella altrui ci affascina in modo imperioso. Proprio perché non riusciamo a spiegarci la natura profondamente sentimentale della nostra coscienza continuiamo a cercare di interpretarla anche nel prossimo, rischiando di diventare curiosi e presuntuosi, ficcanaso e saccenti. Potrebbe aiutarci un approccio di ricerca culturale, quindi condivisa, della sentimentalità più attenta, multidisciplinare e saggiamente eclettica, accompagnata da un maggior coraggio in chiave di confronto autobiografico, ma questo è tema scottante ed importante da affrontare con calma. Per ora sarebbe meglio tentare di essere più prudenti nel giudicare frettolosamente l’esprimersi della coscienza affettiva altrui, visto che non conosciamo abbastanza la nostra.
La forza incontenibile e misteriosa della coscienza umana si esprime ai massimi livelli, nel bene e nel male, nelle capacità costruttive della nostra specie. È un disegno cosciente quello che ha permesso il concepimento e la realizzazione di straordinarie opere artistiche di varia natura: materiali ed immateriali. Pensiamo alle meraviglie architettoniche che costellano il pianeta e alle edificazioni di ricchi, complessi e contraddittori sistemi filosofici, religiosi, ideologici che si sono susseguiti nei millenni, di cui spesso abbiamo vago sentore o che invece ancora palpitano o gravano nelle nostre esistenze. Sculture e dipinti raffiguranti sembianze umane o astratte – queste ultime ben antecedenti la contemporaneità, come dimostrano l’arte sacra ebraica e mussulmana – ci restituiscono ispirazioni e capacità inventive e realizzative straordinarie. Non sono da meno i capolavori letterari, in prosa e poesia, filosofici e saggistici che raccontano non solo il concreto delle vicende della specie ma le sue capacità trascendenti, proiettive ed immaginifiche. Che dire poi delle meraviglie musicali di diverso tipo che ci accompagnano da sempre: espressione e sollecitazione dell’elevarsi coscienziale così evidente eppure fugace. Se ampliamo lo sguardo però, scopriremo opere di diverso tipo non meno ammirevoli per concepimento e realizzazione. Opere di gente comune, spesso oberata da altri compiti, che è stata capace di inventare abitazioni adatte all’ambiente circostante, di realizzare monili e vasellame, graffiti e dipinti magnifici, sorprendenti e caratterizzanti, di sperimentare svariati sistemi di comunicazione, di imparare a vivere nei climi più disparati, di nutrirsi e vestirsi nel rispetto dell’ambiente circostante. Al contempo scopriamo una straordinaria creatività nel concepire e realizzare la collaborazione e la cooperazione nei loro lavori agricoli, edili o di altro tipo, in armonia con la natura prima. Idee, pratiche, opere e strumenti di lavoro appropriati testimoniano la capacità creativa ed interpretativa, coscienziale e culturale, di tante popolazioni e parlano alle nostre coscienze invitandoci alla loro conoscenza.
Come al solito l’umanità mostra anche in ciò il suo volto oscuro. Le capacità costruttive sono diventate distruttive, la potenza vitale si è rivelata mortale nell’organizzazione degli eserciti e nell’invenzione di armi sempre più letali; ma anche nel concepimento di un’economia basata sulle catene (anche al di là della metafora) dello sfruttamento, industrie organizzate come caserme, invenzioni e produzioni sempre più piegate alle esigenze belliche. I mezzi di comunicazione e di trasporto, originariamente pensati con tempi e misura umani – che implicavano perciò attivazioni coscienziali nel recepire il messaggio, non solo nell’inviarlo, nell’interpretare il viaggio, non unicamente nell’organizzarlo – oggi ci stanno precipitando in forme estreme di alienazione delle nostre coscienze in tutte le loro funzioni.
Dunque l’infinita e inesauribile, entusiasmante ed inquietante esplorazione della coscienza ci caratterizza come esseri umani: segnando il sottile confine e la costante dialettica tra i caratteri naturali e le loro interpretazioni. Queste riguardano innanzitutto l’idea del genere femminile e la sua funzione primaria, sono sempre frutto variegato del comporsi complesso delle soggettività, hanno basi e caratteri culturali profondi e soprattutto comportano opzioni morali quindi sentimentali e le costruzioni etiche che ne derivano o le sovrastano. Spiegare, valutare, indirizzare la natura umana chiama in causa le coscienze come passaggio decisivo, perché sono il luogo individuale irrinunciabile ed inevitabile delle scelte che influenzano dal principio ed in permanenza l’assunzione e l’indirizzo delle radici, ciascuna nel loro instancabile intrecciarsi.
(16. continua)