LA RICERCA COSTANTE DEL BENE
Abbiamo cominciato a ragionare attorno a come sin da piccole/i (dal nono mese di vita) siamo protagonisti di un primo grado della ricerca del bene. Da allora cerchiamo il nostro piacere suscitando quello altrui, oppure fronteggiamo il dispiacere cercando o donando consolazione.
Vi invito nuovamente a scavare nei vostri ricordi più lontani, diretti ed indiretti, per verificare la correttezza di questa ipotesi che concerne la propensione costante ad interagire in questo senso ma non garantisce automaticamente il risultato. Una ricerca autobiografica in tale direzione contribuisce alla comprensione della fondamentale indagine sulla ricerca del bene e dei valori che lo accompagnano, ci motiva come attrici e attori insostituibili della stessa e si presta ad ulteriori generalizzazioni.
La tensione ed il cammino verso il bene attraversano e qualificano sempre, con intensità più o meno forte, tutta la nostra esistenza. Affermazione generale che appare talmente evidente da diventare ingannevole: perché non è affatto detto che riconoscere la freccia del nostro percorso significhi saperne pensare i significati più profondi, persino inconsci o comunque reconditi. Ulteriore motivo per interrogarsi su quanto e come la ricerca e il riconoscimento del bene riguardino la scoperta e la crescita di chi siamo.
Momenti di felicità o infelicità, soddisfazioni sorprendenti e dispiaceri inattesi si alternano nel cammino della nostra vita. La scoperta precoce seppur inconsapevole dell’empatia ci sospinge ad interrogarci sulla simpatia che avvertiamo o cerchiamo di trasmettere; d’altra parte spuntano sintomi di incomprensione o indifferenza che spesso sfociano nell’antipatia che avvertiamo o trasmettiamo. Cominciamo a sperimentare ed avvalorare il senso della generosità, fattore come vedremo di prima e costante importanza per lo sviluppo morale ed etico, eppure ogni tanto un contesto ruvido e respingente ci fa cadere nell’arido egoismo.
È possibile riconoscere sin dalle nostre prime movenze la spinta, ad un tempo fisica e mentale, della nostra natura biofila, della quale ci rendiamo più o meno conto cammin facendo già prima del big bang coscienziale, che come vedremo disvela la ricchezza e la complessità di questa ricerca e le controspinte che deve fronteggiare.
La radice morale e le altre
Tramite le esperienze variegate del bene che viviamo nell’infanzia e nella prima adolescenza veniamo via via esplorando le altre nostre radici prime. Perché quella morale è una nostra radice qualitativamente decisiva e qualificante. Una radice sempre viva e palpitante, dinamica anche quando ne siamo inconsapevoli, incontenibile ed irrefrenabile, che possiamo e dobbiamo comunque imparare ad indirizzare per il meglio o al contrario provare a correggere quando cadiamo in errore o ci accorgiamo di comportarci male. È una radice che prende forma assieme e dentro le altre radici plasmandole a loro volta e così qualificando la peculiarità dell’essere umano di ciascuna/o. Come vedremo in seguito il bene e il male di cui siamo capaci non sono all’origine predeterminati o sovradeterminati dalla natura o da qualche potenza estranea, ma nascono da noi attraverso un processo di intreccio radicale costante.
Il costituirsi perennemente connesso delle radici comporta sviluppi diversificati, complessi, asimmetrici e talvolta anche contraddittori che orienteranno prima il nostro senso morale poi la nostra coscienza morale e richiederanno una cultura etica. Proviamo ad analizzare, attraverso il farsi esistenziale, la presenza e l’influenza precoce e reciproca tra la radice morale e le altre.
La primarietà femminile si manifesta nell’accudimento da parte delle madri, biologiche o no, e nello speciale livello di comunicazione con i piccoli sin dalla nascita; successivamente diverrà una presenza educativa indelebile anche se ne serbiamo una memoria appannata. Viceversa la carenza, la mancanza o peggio la malversazione verso bimbe e bimbi da parte delle madri o delle/i caregiver avranno conseguenze problematiche sulla percezione ed il formarsi delle idee di bene, ma i danni subìti potranno essere curati nella crescita da altre presenze affettive. La grazia e l’attenzione, la capacità di comunicazione – non solo verbale – tipicamente femminili che contraddistinguono in linea di massima le donne sin da giovani e ad un tempo le peculiarità biologiche e psicologiche distintive del genere primo possono permettere, trasmettere e sollecitare nella crescita una maggior attenzione allo sguardo, ai gesti, al sorriso, all’abbigliamento, alla cura di sé che comportano benessere e soprattutto incitano a comportamenti benefici. È degna di nota inoltre una precocità femminile nel costruire rapporti affettivi reciproci: attitudine spesso repressa, travisata o addirittura pervertita dalle ingombranti presenze patriarcali e dalla decadenza oppressiva.
Lo sviluppo complesso delle soggettività nel loro comporsi è una fucina e ad un tempo un’espressione del perenne farsi morale. Ciò è vero sin dai primi passi che muoviamo e coinvolge la nostra interezza psico-fisica, per come la percepiamo e la proiettiamo verso le/gli altre/i mentre da loro veniamo influenzati, attratti, ignorati o respinti. Il linguaggio del volto, lo sguardo, la gestualità in generale rispondono in qualche modo all’idea che abbiamo di noi e del prossimo, in particolare tendono a corrispondere alle nostre emozioni e quindi ad esprimere disponibilità o al contrario indifferenza, chiusura. Il nesso tra interiorità ed esternazione non è unilaterale: talvolta è il linguaggio del corpo ad anticipare, a sopravanzare, ad influenzare ciò che avvertiamo mentalmente, casomai sollecitato dal contesto in cui ci troviamo o corrispondendo anche in chiave imitativa all’intuizione dell’attitudine altrui. L’alfabetizzazione e l’educazione grammaticale della nostra morale continua in qualche modo lungo il corso di tutta la nostra esistenza. Una base acquisita può modificarsi e persino cambiare profondamente in rapporto alle esperienze sociali e relazionali di cui siamo protagonisti o che patiamo. Durante la prima infanzia, quando abbiamo vissuto la decisiva influenza materna, dei caregiver e la vicinanza eventuale di sorelle e fratelli, cominciano ad affacciarsi altre presenze umane ancora sfocate che via via diverranno più significative. La reciprocità e lo stare assieme tra coetanei, o con bimbe e bimbi poco più grandi o più piccoli di noi, costituisce un apprendistato fondamentale e diverso da quello sollecitato dagli adulti che i piccoli intuiscono chiaramente essere importanti per ciò che possono apprendere da loro ma a cui, a parte ovviamente le madri, non è facile dare confidenza. Tra fratelli, sorelle, cugini, piccoli amici o conoscenti, compagne/i di scuola si crea un circuito di giochi, esperienze, affettività, scambi discorsivi che danno luogo ad una complicità affettiva che può sfociare in simpateticità elementare e possibilmente dar luogo a fenomeni di forte attaccamento anche al di là del legame parentale esistente. Ciò comporta processi imitativi, di comprensione ed intesa nella pratica condivisa dei giochi che non necessariamente acquistano un carattere competitivo o lasciano tracce di questo tipo: in questo gli adulti dovrebbero aiutare, ma spesso fanno esattamente il contrario fomentando le rivalità. Invece per bambine/i e ragazze/i il godersi lo stare assieme, riconoscere la reciprocità, cercare motivi comuni, rallegrarsi e stimolarsi a vicenda, collaborare anche in chiave ludica, cooperare in un’attività di gruppo: sono altrettanti motivi di felicità e soddisfazione, apprendimento e crescita. Si impara e si fonda così una ricerca del concreto del bene attraverso la scoperta dell’intesa e della simpatia reciproca, della sincerità come voce della vicinanza, del favoreggiamento positivo, del mutuo appoggio, del sostegno e della soddisfazione nella crescita vicendevole. Un processo sottovalutato oppure interpretato alla luce degli schemi dominanti, tradizionali o innovativi, troppo spesso insufficienti o mistificanti. Siamo invece in presenza di un percorso importante nel combinarsi di caratteri diversi, nella fioritura delle individualità, nel germogliare delle relazioni, nel primo configurarsi collettivo: si viene scoprendo via via la propria moralità. È significativo come la ricerca del bene, proprio e condiviso, funga da vettore per la propria presa di coscienza, nella gradazione delle relazioni, nel configurarsi delle dimensioni collettive di cui ci si sente parte attiva. Possiamo credibilmente ipotizzare e verificare, nelle nostre o altrui storie, come, grazie alla spinta e alla pratica morale, esercitata e comprovata in vari modi nel prisma delle soggettività che si costituiscono, si vengano formando e rafforzando i caratteri facoltativi di una persona: trainate dalla sentimentalità si aguzza l’intelligenza, si attiva la memoria, si sviluppa la creatività, si viene componendo la ragione, e così matura la pienezza coscienziale che rappresenta una vera e propria rivoluzione intima. Anche le ragazze e i ragazzi più timidi svelando le loro propensioni morali nel senso di sé e degli altri, degli altri per sé e di sé per gli altri, si scoprono protagoniste/i cercando e praticando, a diversi livelli, una dimensione relazionale e collettiva che via via diverrà più esplicita mentalmente e potrà maturare anche sentimentalmente. È un processo intrapreso praticamente nei giochi, nello studio, nello sport e quindi in modo tendenzialmente più travagliato o invece superficiale nella scoperta dell’intimità amichevole e amorosa. Contestualmente si fanno strada e si viene coinvolte/i in dimensioni collettive che in un modo o nell’altro hanno una funzione formativa importante come luoghi di sperimentazione parziale di comunanza. Classi scolastiche, comitive, squadre, ambiti familiari allargati hanno un qualche connotato simpatetico dichiarato ed in qualche misura indelebile ma non perciò necessariamente positivo, specialmente per i maschi. Nell’assieme questi processi, intrecciati o sovrapposti tra loro, hanno un eco intimo che si viene svelando e qualificando a sua volta, nella percezione individuale, come contraddittoria se non addirittura dannosa, ma al contrario possono rappresentare un’esperienza autoformativa da cui si traggono lezioni vantaggiose.
La decadenza imperante rende questi momenti di aggregazione sempre più problematici e persino minacciosi. Pensiamo al mondo dell’istruzione e al suo carattere crescentemente freddo ed estraniante, per non parlare del lavoro precoce e della quotidianità nelle grandi città violente: questi ambienti oggi più che mai rappresentano fucine di alienazione e gelosia, competitività e cattiverie assortite; solo in assoluta controtendenza grazie a sforzi personali divengono occasione di incontri positivi.
Nelle soggettività giovanili in fieri possiamo riconoscere, assai prima della qualificazione piena e cosciente, il giardino dove possono fiorire i primi fiori del bene individuale, reciproco e collettivo, anche se non mancano le erbacce e le piante velenose.
Il percorso di formazione delle/dei giovani è immaginabile come una ricerca alla scoperta dei propri valori fondamentali. L’idea del proprio bene giganteggia, si configura come una meta luminosa e complessiva che comprende con diverse funzioni ed intensità – positive e negative – le altre e gli altri ma riguarda in primis ed inevitabilmente la propria piena affermazione. Che questa meta possa essere concepita in termini non individualistici dipende da una molteplicità di fattori, ma si basa su risorse antropologiche potenti ancorché sottovalutate o ostacolate nella società in cui viviamo. Una giovane donna o un giovane uomo percepiscono naturalmente che la propria valorizzazione è intrinsecamente legata a quella delle altre e degli altri: in esse/i si riconoscono, di loro hanno bisogno e avvertono come il bisogno sia reciproco, intravedono che la collaborazione e lo scambio, l’unione e la comunione tra simili è un fantastico vantaggio a beneficio di ciascuno e di tutti. Così possono indovinare che la sincerità conviene nell’immediato e in prospettiva; di più, nello slancio di un momento possono sentire il meraviglioso premio che scaturisce dalla lealtà: non solo dire ciò che si ritiene sia veritiero, ma spiegare perché e per chi lo si fa. Quell’incontenibile desiderio di libertà positiva che si comincia ad avvertire all’alba della nostra vita cosciente può permettere un identificarsi intenso quanto misterioso nell’altra persona: ipotizziamo che avverta qualcosa di simile e che la sua libertà possa trovare alimento nella mia, come la mia nella sua. In questo stesso processo intuitivo, eppur gravido di significati più organici, si può cogliere l’incommensurabile bellezza della vita: la nostra con e per gli altri, quella altrui con e per noi. Qualsiasi prepotenza o sopraffazione verso di noi o verso il prossimo, persino se lontano e sconosciuto, suscita in profondità un sentimento di indignazione e radicalizza il desiderio di giustizia e di uguaglianza che non sempre si è in grado di affermare e difendere nei contesti in cui viviamo.
Insorge la coscienza
È come se si schiudesse agli occhi della mente un meraviglioso orizzonte valoriale che ad un tempo è minacciato dalla tempesta di una società di estranei alienata. Questo è lo scenario contraddittorio in cui si avverte l’insorgere della coscienza, tanto potente quanto fugace. È quella forza che ci sospinge verso il bene e la collana di valori che ne deriva, ne amplifica la percezione però al tempo stesso non smette mai di cercare di afferrarne meglio il significato, di qualificarlo, sedimentarlo, estenderlo. La coscienza vuole interiorizzare e comunicare il bene. Un bene percepito, per quanto vivido, non ci basta quasi mai: abbiamo bisogno di consolidarlo e di trasmetterlo. Entriamo fatalmente in contraddizione con noi stessi: dove comincia e dove finisce il mio bene? Dove comincia e dove finisce quello dell’altra persona nota e degli altri in generale? Sappiamo che un gesto, un comportamento, un atteggiamento, una parola, uno sguardo possono trasmettere un messaggio (non solo una sensazione) di bene, ma sappiamo che si può comunicare o recepire il contrario ed ancora, che può darsi una situazione ambigua, intermedia. In altri termini il bene – per la nostra coscienza – non è mai solo il bene compiuto o ricevuto (i due aspetti si alimentano e si sostengono a vicenda) ma il modo in cui viene da noi e dagli altri recepito. Un percepimento “strettamente personale”, squisitamente intimo e tuttavia in qualche modo inevitabilmente reciproco, vicendevole, relazionale, comune. Un bene per la nostra coscienza è sempre concreto ed astratto ad un tempo, in proporzioni variabili: ci pervade ma è inafferrabile, ci sfugge ma ci esalta!
La coscienza stessa dunque ci avvicina agli altri o ci allontana da loro: enormemente e talvolta all’improvviso. Possiamo cercare di spiegarla, comunicarla, condividerla perlomeno in parte, ma nel momento stesso in cui lo facciamo non abbiamo la certezza di riuscirci così come non sappiamo se siamo in grado di comprendere quella altrui. Eppure ne siamo affascinati, attratti: il loro inafferrabile mistero intimo, coscienziale, è anche il nostro. Donare la propria coscienza e saper ricevere quella altrui è una meravigliosa, irraggiungibile utopia che però ha il merito di svelarci quanto la nostra stessa coscienza sia un tremendo, insolubile enigma per noi stessi. Tremendo oppure meraviglioso: perché forse non poterla definire ci dice della sua plasticità non meno della sua inafferrabilità, della sua fecondità non solo della sua problematicità. Così possiamo spaziare, sbizzarrirci, cercando i modi di svelarci e lo facciamo persino quando non ne siamo consapevoli: perché ciò che più profondamente traspare di noi riguarda la nostra coscienza ed in primis il suo carattere morale.
Così possiamo spaziare dalla filosofia alle scienze dell’umano: troveremo spunti preziosi e tracce promettenti mai soddisfacenti o invece dottrine raggelanti e formule assurde cui non ci arrenderemo. Soprattutto però continuiamo ad interrogare noi stessi ed il prossimo curiosi ed insaziabili. Cercheremo e troveremo le tracce della coscienza palpitante in uno sguardo complice, in una meravigliosa intesa dialogica, nell’incanto di un gesto, nella magia di un momento incancellabile, nell’idealità che ci fa volare alti, nell’avvertire la medesima commozione, nel puro segnale della forza vitale. Ecco l’approdo di un viaggio che non finisce, la scoperta repentina della radice futuribile che ci riporta alle origini materne, ci restituisce il pullulare dei soggetti umani che si intrecciano, che ci fa sentire figli di una cultura sofferente da rinnovare, ci lascia intravedere la faticosa conquista del bene e quindi dell’amore che continuiamo a cercare. La coscienza palpita e sfugge nottetempo, poi risorge e ci guida pian piano, talvolta pigra altre volte allegra, in certi momenti capricciosa poi d’improvviso saggia, quasi inavvertita e poi brillante. Se dovessimo spiegarla alle bimbe e ai bimbi potremmo raccontare loro che è lo scrigno dove custodiamo la nostra libertà.
(15. continua)