Siamo al fianco del popolo palestinese, da quasi un secolo vittima di una vera e propria pulizia etnica e dell’oppressione razzista dello Stato di Israele. Quest’ultimo ha basato la sua stessa fondazione, nel 1948, sulla negazione del popolo palestinese: perciò oggi la maggioranza dei palestinesi è costretta a vivere nella diaspora. In questi giorni, tale storica e dolorosa ingiustizia si aggrava con l’intenzione del governo Netanyahu (spalleggiato da Trump) di procedere con l’annunciata annessione della Cisgiordania. Cioè di porre fine ad una molto relativa autonomia – gestita tra complicità, corruzione ed impotenza dall’Autorità nazionale palestinese – e di privare di ogni diritto i palestinesi che vi vivono, fino a indurli ad un nuovo esodo.
Occorre fermare questa ulteriore, odiosa forma di apartheid, giustamente respinta da tutte le componenti della società palestinese e contestata anche dagli antirazzisti israeliani nella manifestazione di Tel Aviv del 6 giugno scorso. È giusto fare appello a tutte le persone solidali e agli antirazzisti (che proprio in queste settimane hanno fatto sentire la propria voce con mobilitazioni partite dagli Stati uniti e diffuse in tanti paesi) per unirsi in ragione della dignità e della libertà umana contro ogni oppressione.
Valorose e rare esperienze di minoranza dimostrano che è difficile ma possibile battere la strada dell’incontro e della cooperazione tra palestinesi e israeliani nel contrastare l’oppressione dello Stato israeliano – che periodicamente esplode in guerra aperta e distruzione – e per cominciare a immaginare un futuro di pacificazione tra comunità finora profondamente lacerate. È invece illusorio e dannoso confidare nelle soluzioni politiche, negli accordi tra Stati, nel fantomatico “diritto internazionale”: i frutti amari del “piano di pace”, nato morto a Oslo nel lontanissimo 1993, sono sotto gli occhi di tutti e si chiamano più oppressione e più guerra, più ingiustizia e più corruzione.