Il Covid muta ma serpeggia ancora seminando vittime e creando problemi ad ognuno. Sembra che a riguardo i poteri oppressivi abbiano scelto – senza esplicitarlo – di optare per ciò che cinicamente chiamano “immunità di gregge”. Tutti/e avvertiamo un legittimo bisogno di meritate vacanze e può darsi che ciò sfoci in una frenesia tutt’altro che rilassante. Tragedie quotidiane di vario tipo ci colpiscono e vengono enfatizzate dai media. Forse in questo quadro può esserci la tentazione di abituarsi alla guerra o di rimuoverla? Eppure continua il conflitto tra la Russia e l’Ucraina, sostenuta dalla coalizione dei paesi occidentali a guida statunitense: ci riguarda già direttamente ed indirettamente e prossimamente sarà così ancor di più. Il suo lento e sanguinoso sviluppo sembra in alcuni aspetti cinicamente concordato tra le parti: inconcludente l’una ed oscillante l’altra. Mosca non si rafforza ma non molla perché, facendo leva sulla ricchezza in alcune materie prime, crede di poter ottenere alla lunga qualche vantaggio strategico contro l’Occidente, la qual cosa non dispiace a Pechino. Gli Usa appoggiano con copiosi aiuti militari lo sforzo bellico di Zelensky, sperando di risollevarsi da una situazione interna complicata, che invece conosce una decadenza irreparabile il cui emblema è la costante accelerazione della violenza interna tendente ad una forma strisciante di guerra civile sui generis; mentre lo scontro sui diritti umani, innanzitutto femminili, si acuisce con un feroce attacco al poter decidere in prima persona su un’eventuale gravidanza. I diversi governi europei si trascinano obbedendo agli ordini di Washington, estendendo e rafforzando la Nato, alleanza bellica permanente al servizio degli americani, mentre rischia di indebolirsi la loro già fragile unione. I paesi più importanti del vecchio continente vivono turbolenze significative: la Germania orfana della Merkel perde il suo peso politico internazionale ed è retta da una coalizione incerta; la Francia esce dalle urne con un’astensione gigantesca e senza una maggioranza: il che ostacola le pretese di autonomia in politica estera di Macron a capo di un esecutivo traballante; Sánchez perde consensi in Spagna mentre svela il suo socialpatriottismo assumendo tremende posizioni razziste; in Italia Draghi vivacchia sulla base di una maggioranza raffazzonata e litigiosa a cominciare dal suo principale partito oramai imploso. Nel Vecchio regno isolano il gaudente pagliaccio guerrafondaio, principale alleato di Biden, travolto da scandali assortiti è costretto a dimettersi da capo del suo partito. Mentre le conseguenze della guerra si avvertono già in modo drammatico nei paesi poveri, cominciano ad intravedersi anche da noi: aumenti e penurie di vario tipo si preparano per l’autunno ma le tracce della guerra potrebbero essere più profonde. Odio, cattiverie, violenze, prepotenze, ingiustizie rischiano di crescere nelle società in cui viviamo come inevitabile frutto del fare bellico che ne è la fonte velenosa e contagiosa.
Perciò è più che mai necessario conoscere la guerra, sin dalle sue scaturigini e nella sua funzione oppressiva fondante, per fronteggiarla. La tesi fondamentale di questo saggio concerne l’esistenza di cinque radici primarie che permettono lo sviluppo umano nel suo assieme, ovvero: la primarietà femminile, le coscienze, le capacità di creazione culturale, le soggettività complesse (individuali, relazionali, collettive) che si compongono costantemente, le predisposizioni morali ed etiche inevitabilmente elaborate soggettivamente. Questo processo di sviluppo biofilo omeostatico della nostra specie è sottoposto all’attacco sistematico da parte dei poteri oppressivi che, sin dal loro sorgere, per imporsi hanno violato le radici su tutti i piani innanzitutto con movenze belliche. Il carattere devastante di questo attacco ha colpito e continua ad attentare alle fondamenta primarie della nostra specie, senza però riuscire ad estirparle; perciò, incapace di prevalere pienamente, l’oppressione tende a decadere e quindi si inferocisce ulteriormente. Ne deriva che quanto più i poteri negativi sono in difficoltà, tanto più ricorrono alla logica bellica, applicandola e provando ad imporla in ogni sfera dell’esistenza.
Le guerre come motore primo dell’oppressione
Continuiamo ad esplorare il nesso inscindibile tra la supremazia bellica sin dalla fondazione dell’era oppressiva e la conseguente perversione delle altre forme del rappresentare e dell’agire umano. Partiamo dalle origini più remote, quando ancora convivevano le antecedenti forme millenarie, prevalentemente comunitarie e pacifiche, con le prime movenze di violenza organizzata. Eventi geologici o meteorologici di vasta portata costringevano probabilmente gruppi umani ad emigrare da territori più fertili, ma resi inabitabili da tali eventi, in altri meno fecondi ma accettabili: in queste condizioni le necessità della sopravvivenza sospingevano i maschi adulti ad organizzarsi in bande di cacciatori, mentre le donne continuavano nelle attività di coltivazione e raccolta, rispettose della natura prima. Le finalità erano il procacciarsi cibo ed abiti, ovvero riguardavano attività produttive fondamentali in qualunque tipo di economia. La necessaria collaborazione e cooperazione tra i cacciatori venivano inevitabilmente corrotte perché destinate alla violenza organizzata necessaria a predare e sopprimere individui di altre specie, cioè indirizzate negativamente. Al tempo stesso l’attività della caccia rappresentava il primo allenamento ad uccidere, quindi costituiva una premessa indispensabile per imparare ad assassinare i propri simili, asservirli e derubarli, cioè prepararsi per fare la guerra. Non è difficile né arbitrario ipotizzare che questa primordiale divisione forzata del lavoro potesse provocare alla lunga delle crepe nelle alleanze tra i due generi, tendere a diseducare l’infanzia e suscitare appetiti o primi esperimenti di potere negativo.
Possiamo rintracciare così i prodromi della regola plumbea del fare negativo in luogo dell’operare positivo, il principio del terribile teorema sovversivo atto a produrre (armi) per sopprimere (vite) e quindi del distruggere per vincere, non essere vinti e dominare. I primi sintomi bellici avrebbero così segnato l’economia e fatto intravedere una nuova idea, oppressiva, del potere. Compiamo un salto temporale gigantesco ed andiamo alle origini più vicine, quando si schiuse la fase del sistema democratico globale. Siamo nel pieno della Seconda guerra mondiale e gli Usa continuavano ad esitare a scendere in campo malgrado il costante pressing di Churchill.
Rammentiamo che alla Casa Bianca non mancavano simpatie verso la peste nazista e non si escludeva una possibile neutralità o accondiscendenza nel caso di un trionfo di Hitler in tutta Europa. Ma l’eroica e tenace resistenza inglese alla fine convinse Roosevelt a scendere in campo contro la Germania. Lo fece soprattutto dispiegando l’enorme potenziale industriale nordamericano in termini militari e pretendendo un nuovo regolamento post-bellico di apertura dei mercati internazionali. Preparava così, in base alla vittoria della guerra, la propria espansione militare-economico-politica che in Europa si concretizzò con il piano Marshall. La Seconda guerra mondiale ha rappresentato uno sconvolgimento antropologico senza precedenti1, innanzitutto per le decine e decine di milioni di uomini, donne e bambini che vi perirono e di conseguenza per la distruzione del tessuto economico e di innumerevoli città in Europa occidentale ed orientale, così come in Cina e in Giappone.
Quest’ultimo caso è tremendamente emblematico: malgrado la resa dei giapponesi fosse ormai solo questione di tempo – e gli americani ne erano a conoscenza grazie alle intercettazioni del servizio segreto –, il presidente Truman, che era succeduto a Roosevelt, decise di sganciare comunque le bombe atomiche prima su Hiroshima e tre giorni più tardi su Nagasaki, con i conseguenti immani massacri. Il capo di stato maggiore statunitense, ammiraglio Leahy, sollevò dubbi di ordine morale sul colpire in tal modo la popolazione civile, ma gli scienziati premevano in senso opposto, ansiosi di portare a compimento la loro “opera” devastante. Il 6 agosto 1945 la prima atomica fu sganciata distruggendo quasi tutta la città e causando l’uccisione di quasi 80.000 persone; venuto a conoscenza della notizia Truman espresse il suo crudele entusiasmo esclamando: “È questo il più grande avvenimento della storia!” Tre giorni dopo fu lanciata anche la seconda bomba contro Nagasaki con effetti simili. Frammenti di testimonianze emblematiche sono trapelati a proposito del dibattito sui motivi di queste scelte efferate. Il già citato ammiraglio Leahy rivelò: “Gli scienziati e altri volevano sperimentarla, date le enormi somme di denaro che erano state investite nel progetto: due miliardi di dollari”. Uno degli alti ufficiali coinvolto nell’operazione criminale detta “Manhattan District Project” chiarì ulteriormente con un cinismo efferato e stupefacente: “Era importante che la bomba atomica fosse un successo. Si era speso tanto per costruirla… Tutte le persone interessate provarono un sollievo enorme quando la bomba fu finita e sganciata”. 2
Appare evidente ed agghiacciante in queste vicende la concretezza della dialettica perversa tra guerra e dominio politico-economico. Le ricerche industriali si concentrano sul potenziamento dell’apparato distruttivo che una volta messo in atto permette lo sviluppo ulteriore dell’economia. Come ha notato lo storico statunitense Thomas W. Zeiler: “Il fattore che ha lanciato gli Usa verso il predominio è stata l’attività industriale in tempo di guerra”.3 Definizione corretta se si considera però che la prima e fondamentale realizzazione di questa attività industriale divenne appunto il fare la guerra, il che permise l’inaugurazione del sistema globale dominato dagli Usa. In altri termini: qui abbiamo un esempio paradigmatico del ruolo ulteriormente fondante per l’oppressione contemporanea costituito dalla guerra preparata e guerreggiata. Ciò che permette la realizzazione del plusvalore della produzione bellica è l’azione distruttiva che a propria volta sancisce l’egemonia militare-economico-politica, sospinge l’insieme dell’attività industriale, permette l’apertura e la conquista di nuovi mercati, consolida o sviluppa il controllo territoriale, impone accordi favorevoli e dà luogo alla ricostruzione (cominciando dal rinnovamento degli arsenali di morte), ovvero all’impulso successivo dell’accumulazione capitalistica. È precisamente quanto conseguirono gli Stati Uniti dopo la vittoria nella Seconda guerra mondiale scatenando la loro potenzialità economica, presieduta dalla potenza militare oramai in versione imperialistica, con la conquista dei mercati mondiali liberalizzati, il piano Marshall e la tutela sul Giappone che li proiettarono come prima potenza mondiale in una nuova fase della globalizzazione. Casa Bianca e magnati del capitalismo yankee, che non hanno mai smesso di portare guerre e distruzione in giro per il mondo, però avevano sottovalutato le controindicazioni che insorgevano nel nuovo scenario e in prospettiva le dinamiche dell’impero cinese, che con grandi sacrifici ed i propri tempi si andava riorganizzando. Dunque la caratterizzazione lapidaria fornita dal principale, e largamente sottovalutato, teorico moderno della logica bellica si è confermata ed approfondita: “La guerra è un atto del commercio degli uomini”.4 Il conflitto armato, l’economia, la politica assieme all’inganno ideologico sono intrinsecamente legati nella scaturigine dell’oppressione. In special modo e in prima istanza è la potenza militare esercitata e predominante a decidere e a dettare il carattere, l’andamento e i cambi dei vari campi di attività perché porta alle estreme conseguenze l’esternazione e l’estraniazione dell’umano, diffonde a dismisura la prassi oggettivante, onnivora e mortifera. È il trionfo del fare onnipotente ed onnipresente, separato ed incontrollabile, il regno della distruzione degli esseri con creti. La logica borghese dominante è abituata a giudicare i risultati materiali, fattuali, immediati delle guerre, così come dell’economia, della politica, della cultura, della storia stessa ed infine dei rapporti umani. Accade così che il principio di giudizio indispensabile, logicamente ed antropologicamente prioritario, consistente nel benessere dell’umanità tutta, giace sul fondo del tutto ignorato o ipocritamente citato ma costantemente calpestato.
Non dovrebbe dunque sfuggire come un’altra intuizione di Clausewitz, concernente le grandi battaglie come centro di gravitazione di tutto il sistema, vada inteso in senso amplificante. Ogni aspetto della vita nella contemporaneità trae ispirazione e modelli dalla logica bellica moderna: grandi operazioni e concentrazioni economiche, grandi campagne elettorali e pubblicitarie (c’è differenza?), grandi campagne stampa. Tutte queste campagne vengono concepite come mobilitazioni per ottenere la distruzione degli avversari. Ciò influisce sulla vita ed il pensiero delle persone comuni e tuttavia non in modo meccanico perché questo gigantismo unicista, centralista e soffocante ostacola ma non riesce a soffocare le prime radici umane nel loro carattere molteplice, variabile ed elettivo. L’importanza primaria della forza difensiva in guerra, riconosciuta dai teorici più attenti, si invera nella priorità dell’accumulo in economia. Si pensi a come gli Usa hanno basato la loro straordinaria potenza complessiva sulla formidabile forza difensiva generalmente intesa: sono difficilmente attaccabili come paese paradossalmente per la stessa vastità del territorio, per la loro allocazione geografica tra due oceani e confinanti al nord con un paese amico e al sud con paesi sudditi o facilmente controllabili tramite trattati capestro, golpe, controrivoluzioni, traffici di vario tipo (droghe ed armi in primis). D’altra parte le lunghe fasi di isolazionismo hanno permesso agli Usa la concentrazione di forze economiche che dopo il 1945 hanno invaso il mondo.
La grande forza oppressiva di Roma antica consisteva nella capacità di combattimento delle legioni e alla lunga nell’estensione e nell’efficacia della rete viaria che permetteva lo spostamentodegli eserciti e quindi lo sviluppo del commercio: ecco un altro esempio emblematico della connessione e della similitudine fondante tra guerra ed economia oppressiva. Con la modernità e poi nella contemporaneità sono intervenuti significativi mutamenti combinati, dovuti agli sviluppi degli armamenti, dei mezzi di trasporto e di quelli informativi, che hanno esteso i campi di battaglia, aggravato le forme di sfruttamento, accelerato l’imperversare delle forze distruttive militari ed economiche. Si è creata una sorta di interdipendenza reciproca ed incontrollabile tra questi fattori che alimenta il processo di disumanizzazione e distruzione ambientale e dovrebbe farci interrogare sul significato autentico del progresso selvaggio.
Possiamo continuare ad esplorare la dipendenza e la similitudine tra la logica bellica e quella dell’economia di sfruttamento prendendo in esame il nesso tra accentramento bellico e monopolio economico. Le coalizioni5, la coesione delle varie specializzazioni negli eserciti e la concentrazione delle forze sul campo svolgono una funzione cruciale nei conflitti armati così come sono divenuti decisivi i cartelli e i monopoli nell’era imperialista e sistemica dell’economia. D’altra parte non è difficile riscontrare logiche simili nella centralizzazione degli Stati e nelle alleanze politiche, nelle forme di sorveglianza e punizione inventate dai potenti – basti pensare ai campi di concentramento –, e nel conformismo ideologico che avvelena e mortifica le culture. È da sottolineare che questi processi nella loro similitudine sono stati innanzitutto e perennemente sperimentati nelle guerre che hanno fornito un modello per gli altri campi di attività oppressive. In ogni caso sono evidenti gli interessi e le necessità negative o strumentali contro le genti per sfruttarle, sottometterle, imprigionarle, imbrogliarle, ucciderle: comunque opprimerle. Nel tempo questa tendenza all’accentramento dei poteri oppressivi si è andata accentuando ed è una prova eclatante della loro furia unicista e uniformante che contraddice la naturale propensione umana alla varietà e differenziazione.
Questi aspetti concatenati ci spiegano perché il fattore militare permane come prima ed ultima risorsa fondamentale dei regimi oppressivi; può essere utilizzato però in maniera parzialmente alternativa, più cauta, mediata e meditata come è stato in tempi più recenti nel caso della Cina, prima per necessità, quindi per scelta empirica. Approfondiremo questo aspetto. Intanto rimane una considerazione di fondo: questa propensione primaria e costituente della forza distruttiva ci dice ad un tempo della pericolosità letale delle logiche oppressive ma anche delle sue inevitabili ed incolmabili debolezze da un punto di vista antropologico di cui è possibile approfittare in positivo. La condizione è però che gli esseri umani sappiano reagire riscoprendo ed attivando, anche su piccola scala, le loro radici primarie nel cui carattere affermativo risiede la migliore capacità difensiva e costruttiva ad un tempo: per attivare e vivere processi di liberazione umana e femminile; di costituzione feconda e creativa delle soggettività individuali, relazionali e comuni; di crescita coscienziale, cominciando dai giovani; di creazioni culturali innovative ed indipendenti; di protagonismo morale ed etico finalizzato al bene di ciascuno in reciprocità e comunanze. (7/continua)
NOTE
- Per un profilo ricostruttivo ed interpretativo d’assieme del grande conflitto nella nostra ottica umanista socialista si veda: Giovanni Marino, L’umanità nella tempesta. Tragedie e speranze nella Seconda guerra mondiale, Prospettiva Edizioni 2021.
- La precedente ricostruzione sull’uso della bomba atomica, comprese le citazioni dei protagonisti, è ricalcata su quanto scritto nel saggio di sir Basil Liddell Hart, La seconda guerra mondiale, in Storia del mondo moderno, vol. XII, I grandi conflitti mondiali 1898-1945, Cambridge University press, pp. 958-959.
- Si veda Thomas W. Zeiler, Aprire le porte dell’economia mondiale, in Storia del mondo, vol. 6, Il mondo globalizzato dal 1945 ad oggi, Einaudi 2014, p. 187.
- Karl von Clausewitz, Della guerra, Mondadori 1970-2014, p. 130. Ho brevemente trattato del significato di quest’opera in una nota di Fondamenti di un umanesimo socialista, Prospettiva Edizioni 2010, pp. 474-476.
- A proposito della logica di coalizione si soffermerà Clausewitz, op. cit., pp. 809 e seg., segnalando il parallelismo e il rapporto strettissimo tra guerra e politica che, a nostro avviso, va però capovolto nei termini: la politica, come l’economia, non è che la guerra fatta con altri mezzi!