Ogni anno, per iniziativa dell’Onu, si celebra il ricordo della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz da parte dell’armata rossa il 27 gennaio 1945. Dovremmo però imparare ad esercitare la memoria, come capacità non passivamente rivolta al passato ma come facoltà creativa innanzitutto del presente futuro, ben oltre le ricorrenze stabilite, come attivazione delle nostre qualità sentimentali e riflessive per scegliere chi essere e come essere migliori. Cosa si ricorda e come è quindi fondamentale per ciascuno di noi: limitarsi alla tragedia o cercare gli spunti e gli esempi che possono meglio aiutarci ad attivare tale possibilità di essere migliori?
Per quest’ultimo intento è importante guardare a coloro che più sfidarono l’olocausto in atto. Un episodio molto importante di ciò fu la rivolta del ghetto ebraico di Varsavia che, iniziata nel gennaio, si concentrò tra il 19 aprile e il 16 maggio 1943.
Scrive Fabio Beltrame in Gli eroi di Varsavia. Resistenza e rivolta nel Ghetto (1939-1943) :
«La rivolta del ghetto di Varsavia fu la più importante di una serie di azioni di resistenza e di reazione che iniziarono sin dalla seconda metà del 1942 in Polonia, quando la maggior parte delle comunità ebraiche erano state decimate e coloro che sopravvivevano erano stremati dalla fame, dalle malattie e dai traumi della ghettizzazione, delle fucilazioni di massa e della separazione dai propri affetti.
Quella del ghetto di Varsavia fu la prima rivolta condotta da organizzazioni clandestine popolari in una città europea occupata dai nazisti. Malgrado i tentativi di contenere la diffusione della notizia da parte del governo nazista a Berlino e del Governatorato generale in Polonia, essa giunse sino ai campi di sterminio, nelle campagne polacche e russe fino all’Europa occidentale ed oltreoceano quando però ormai il ghetto era stato ridotto ad un cumulo di macerie e la popolazione era stata deportata.
Coloro che scamparono alla liquidazione raccontarono ciò che era avvenuto: la resistenza e la vita clandestina ed infine la rivolta decisa «per non morire come pecore al macello». I racconti produssero disorientamento, incredulità, perfino il sospetto – tra i governi inglese ed americano – che coloro che si erano salvati in realtà fossero pedine di un complotto politico e militare internazionale ordito da Stalin […] Nulla di tutto ciò era vero, mentre al contrario oggi possiamo affermare con certezza che le potenze alleate – Inghilterra e Usa – erano ben poco interessate a fermare il genocidio, quanto piuttosto a terminare la guerra, non prima di avere sistemato il futuro postbellico dell’umanità».