America Latina
Movimenti umani in cerca di miglioramento

Carovane di immigrati dall’America centrale verso il nord, haitiani in viaggio lungo tutto il continente, “l’esodo venezuelano” di cinque milioni di persone: tutta l’America Latina è attraversata e sconvolta da un movimento umano costituito da un enorme numero di donne e uomini di ogni età convinti che la ricerca di una vita migliore o anche solo la difesa della vita renda necessario allontanarsi dal luogo in cui vivono verso altre regioni o paesi, in alcuni casi anche molto distanti, non solamente verso gli Stati uniti. E d’altro canto queste persone capiscono sempre di più che potranno realizzare meglio tali viaggi, almeno fino a un certo punto, affrontandoli in compagnia, con la collaborazione e la cooperazione di altri e di altre, dando così vita al fenomeno delle carovane. Talvolta, queste comunità in marcia si costituiscono specificamente per denunciare la propria condizione, come nel caso della “Carovana per la giustizia, la dignità e la libertà del popolo migrante” formatasi in Chiapas. In un contesto complesso e nell’emergenza derivante dalla pandemia, dalla miseria, dalla mancanza di lavoro, dalla violenza sociale e dalla repressione statale, dai femminicidi e dai disastri ambientali, si tratta di una enorme e multiforme manifestazione di emersione umana che sollecita tutta la nostra solidarietà e, come non potrebbe essere altrimenti, si intreccia drammaticamente con la decadenza.

Sappiamo già come rispondono gli Stati: per citare un solo caso, il governo del democratico Biden cerca di impedire gli arrivi alle proprie frontiere, espelle gli immigrati in vari modi e sta valutando di rispolverare la cinica politica “Restate in Messico” del suo predecessore Trump con la quale bisogna attendere l’esito delle incerte pratiche migratorie in centri di raccolta precari posti oltre confine. Le reti che gestiscono il traffico di persone lucrano dalla disperazione e da frontiere ancor più chiuse in tempi di pandemia.

Preoccupante è il clima sociale sempre più visibilmente xenofobo, discriminatorio e razzista. Si combinano storici pregiudizi presenti nelle società statali latinoamericane dominate da settori razzisti e ignoranti (“vengono a rubarci il lavoro”, “se ne approfittano del nostro sistema sanitario e scolastico” ecc) con l’emotività irrazionale frutto dell’impatto della pandemia (“vengono a contagiarci”), la crescita di discorsi reazionari (in primis Bolsonaro e i suoi seguaci) e con un sostrato ideologico, culturale e storico altamente problematico. Ci riferiamo a un continente in cui – ai tempi del colonialismo – per poter esercitare l’oppressione con maggior facilità fu teorizzata la divisione in razze. Ci riferiamo anche a gravi tensioni storiche e attuali – tra cui quella riferita alla condizione sofferta dai popoli originari – a cui oggi si aggiungono certe elaborazioni razzialiste, anche da posizioni “di sinistra”, che tornano a teorizzare l’esistenza delle razze (è il caso del “nazionalismo afro-brasiliano”), confondendo ulteriormente le coscienze. È il caso della recente mobilitazione xenofoba nel nord del Cile – nella quale è stato dato fuoco alle tende degli immigrati – in cui era visibile la wiphala, la bandiera tipica dei popoli indigeni andini: in questo caso utilizzata per rivendicare un regionalismo autoctono escludente e violento contro la gente in arrivo dal Venezuela.

Di fronte alla complessità degli avvenimenti è quindi più necessario che mai difendere alcune verità fondamentali come quella che tutti siamo, nonostante le frontiere statali che ci separano, parte di una comune umanità differente, uno dei cui tratti fondamentali è la ricerca di affermazione della vita, propria e dei propri cari. Le espressioni più o meno isolate di violenza e di disgregazione che anche nei movimenti migratori si ripropongono non possono confonderci nel prendere posizione e suscitare solidarietà umana con le persone in cammino nel Chiapas, nel deserto dell’Arizona, in Iquíque, sul ponte Simón Bolivar, nel nord del Brasile o nella foresta del Darién.