Gli esseri umani vivendo rappresentano la propria vita, quindi provano a identificarsi individualmente, relazionalmente, collettivamente. Le rappresentazioni identitarie si intrecciano tra loro, perciò non avvengono mai in condizioni mentalmente libere. Ci influenziamo a vicenda mentre le ideologie dominanti esercitano il loro potere sempre negativo, spesso devastante. La libertà di identificarci non è mai solo personale ed è necessariamente complessa come la nostra esistenza perché riguarda i vari aspetti delle soggettività. Così succede che in diverse epoche oppressive la questione del “chi siamo?” viene posta concentrandosi su un aspetto trascurando o sottovalutando gli altri.
Alla fine dello scorso millennio per chi anelava alla liberazione l’identità sociale aveva un ruolo preponderante. L’anelito collettivo era schiacciante mettendo in secondo piano l’identità personale, la cui esigenza non per questo spariva. Tant’è che per reazione negli ultimi vent’anni è venuta crescendo in modo unilaterale la ricerca spasmodica e irrazionale dell’identità individuale dando per scontata la questione di chi siamo assieme. Però in sottofondo quest’ultima continua a urgere e ad esercitare un peso fondamentale. I rapporti più svariati così come le collettività macroscopiche o ristrette di diverso tipo, da quelle etniche a quelle religiose, dalle comunità di luogo a quelle familiari continuano a caratterizzarci, lo si voglia o no.
Allora è necessario cercare di capire che la ricerca delle identità ha inevitabilmente diverse voci che ci riguardano tutte/i e ciascuna/o. Di più è opportuno provare ad organizzare il nostro pensiero identitario secondo un ordine credibile ed utile a vivere meglio. Per concepirlo possiamo fare appello al nesso inseparabile tra il nostro corpo e la nostra mente, imparando a pensare la nostra fisicità e a incarnare il nostro pensiero. Scopriremo così la nostra naturalità inscindibile dalla nostra coscienza, la materia viva di cui siamo fatti che ci permette di rappresentare il mondo, gli altri, noi stessi. In questo fecondo esercizio autobiografico si intravede il carattere naturalmente culturale degli esseri umani.
Attualmente il riconoscimento della natura umana viene spesso negato da spropositi culturalisti, frutto di errori, di malafede o di semplice ignoranza, generando terribili contraddizioni. Infatti: se non si riconosce la natura umana, come è possibile riconoscere e rispettare la natura tutta che viene prima di noi e va oltre noi? Oppure la si considera ma si colloca l’umanità fuori di essa in una sfera inqualificabile, arbitraria, assurda? Viceversa: considerare parte della natura in generale la nostra natura, unica come quella di tutte le altre specie viventi, ci permette di partire col piede giusto nell’identificarci.
Ci riconosciamo come una specie unitaria, in cui siamo tutti parenti e tutti differenti, naturalmente costituita dal genere femminile, primo per caratteri biologici non unicamente sessuali, e dal genere maschile. Su queste basi originarie, naturali e incancellabili – che rappresentiamo e interpretiamo culturalmente – si può operare la propria fondamentale scelta individuale e di conseguenza orientare liberamente le proprie scelte relazionali e comuni, di cui siamo protagoniste/i e a cui dobbiamo corrispondere nel rispetto delle altrui scelte.
Insomma quello identitario è un intreccio costante inevitabile che può diventare un imbroglio o, anche peggio, un inganno che ci ingabbia in schemi precostituiti dannosi e che ci illude di poter essere di volta in volta chi ci immaginiamo di essere, prescindendo dalle altre e dagli altri. In alternativa, invece, l’intreccio può essere una meravigliosa opportunità di scelta del bene possibile basata su una ricerca costante e coerente compiuta in prima persona singolare e plurale, dove il nostro io si forma come protagonista relazionale e collettivo. Una scelta libera sapendo che nessuno può essere veramente libera/o da solo.
25 luglio 2021
2021-07-20