Birmania, i tanti volti del coraggio

Un mese dopo il colpo di stato, i militari non sono riusciti a fermare le mobilitazioni, così hanno deciso di scatenare la repressione sparando sui manifestanti. È una escalation di violenza: oltre 30 le vittime – la maggioranza domenica 28 febbraio a Yangon – centinaia i feriti, migliaia gli arresti.

Le popolazioni birmane meritano sostegno e solidarietà nella loro lotta non solo in difesa del risultato elettorale ma nell’affermazione della propria libertà. Esse hanno bisogno di ancor più coraggio di quello che già stanno dimostrando. Non solo per fronteggiare la violenza crescente di un esercito che già in passato si è macchiato di orribili stragi, ma anche per cominciare a fare i conti e a superare le storiche lacerazioni tra le diverse comunità etniche e religiose. Tali divisioni hanno sempre fatto il gioco dei poteri oppressivi. Emblematico il caso della minoranza rohingya, perseguitata e costretta all’esilio nell’indifferenza della maggioranza bamar. Era il 2017, a capo del governo c’era Aung San Suu Kyi, la leader democratica oggi deposta e incarcerata dai militari ma all’epoca loro ostaggio e allo stesso tempo loro complice. Oggi, la lotta per la libertà può rafforzarsi mettendo in discussione le lacerazioni del passato, muovendo primi passi di avvicinamento e di riconoscimento, di pacificazione e di unione tra le diverse comunità. Non certo aspettando che le potenze democratiche muovano in soccorso dei manifestanti, o che la Cina imponga moderazione ai militari.